Ci si scandalizza perché Leo Messi, capitano ed “eroe” dell’Argentina campione del mondo di calcio, è stato costretto ad indossare un bisht nero da Tamim bin Hamad Al-Thani, l’emiro del Qatar, tunica prestigiosa che per gli arabi è simbolo di sovranità e regalità, ossia un gesto di grande rispetto per chi la veste, un onore dunque secondo gli usi locali (in tutto il mondo arabo). Ma è una polemica a mio avviso tardiva, che sa tanto di lacrime di coccodrillo: che cosa ci si aspettava da chi ha in pugno il calcio globale? Da chi ha portato il sacro rito del Mondiale calcistico in Paesi dove le libertà sono stretto controllo e i diritti una chimera? Un calcio i cui stadi sono stati edificati col sacrificio di migliaia di lavoratori, le cui vite vendute ed in ostaggio non valgono nemmeno un tiro di Messi o una legnata di Mbappé?

Il “nuovo” calcio senza frontiere – in realtà, celebrato tra muri sempre più alti – ormai punta sempre di più verso le autocrazie e gli Stati che consideriamo “impresentabili”, dispongono di immensi capitali e non devono rendere conto a nessuno, dunque ha cominciato con la Russia, poi si è diretto verso i Paesi del Medio Oriente, non vede l’ora di irrompere in Cina, con il beneplacito delle grandi multinazionali che giostrano i poteri mediatici e hi-tech.

Alla finale in tribuna, accanto Naila Asker-zade, moglie del banchiere Andrei Kostin, presidente di Vtb, uno dei più stretti collaboratori di Putin, c’era Elon Musk. E’ il calcio che Gianni Infantino, presidente della Fifa, teorizza e sta rifondando, a costo di sconcertanti comproMessi e compiacenze inammissibili agli occhi dei puristi che sognano ancora il calcio di una volta, mentendo a se stessi, giacché il calcio di oggi è ormai qualcosa che va oltre i recinti (e gli stadi) di un tempo. No, non poteva Messi rifiutarsi ad una simile “investitura”, sotto lo sguardo paternalistico dell’emiro i cui soldi finanziano il Paris St. Germain che lo ha ingaggiato lautamente e quello compiacente di Infantino che lo considera l’ideale ambasciatore del calcio globale?

Suvvia, non prendiamoci in giro. Questa è la realtà del pallone.

Obtorto collo, Messi, abbastanza perplesso per l’insolita cerimonia, ha dovuto accettare l’astuta cortesia di Al-Thani, poiché non poteva dire di no al suo datore di lavoro. Il Psg stipendiato dal 2011 è di proprietà della Qatar Sport Investment presieduta dal potente Nasser bin Ghanim Al Khelaifi, il padrone del gruppo media “beIn” nonché membro del Consiglio di amministrazione dell’Autorità per gli Investimenti del Qatar (QIA), opulento fondo sovrano, tra i più attivi del mondo, che manovra 450 miliardi di dollari, mica noccioline, un quarto cioè del nostro Pil. Insomma, Messi, sia pure riluttante, è stato costretto a tradire il suo sponsor tecnico Adidas (furioso) e soprattutto il momento più iconico della carriera di un calciatore, innalzare la Coppa con la maglietta della nazionale coperta dalla tunica qatarita.

Peraltro, il regolamento della Fifa lo vieterebbe. Però Infantino ha concesso la deroga al suo ospite, nel giorno della festa nazionale: agli occhi di tutto il mondo arabo, avrà motivato Al-Thani, Messi apparirà col rango di regnante nell’impero del calcio, un onore davvero altissimo che si concede solo alle persone più illustri. Ci rende orgogliosi che il fuoriclasse argentino, avrà aggiunto, sia un giocatore del Psg, che è la nostra vetrina nel mondo dello sport. Furbo. Nella stessa squadra giocano Mbappé, il più forte giocatore in circolazione, e Neymar, l’asso brasiliano. Argentina, Francia, Brasile erano le tre squadre favorite. Comunque fosse andata, il Qatar avrebbe potuto rivendicare la sua quota di trionfo.

Diciamoci la verità, allora: con il bisht indossato da Messi, Al-Thani ha politicizzato un momento unico, e irripetibile, nella storia popolare del calcio, compiendo una sofisticata operazione di propaganda travestita da gesto di infinita cortesia (il palcoscenico delle premiazioni finali, al centro dello stadio Lusail era a forma del segno infinito, simbolo dell’astrazione matematica). Ogni dettaglio, dunque, della cerimonia era mirato a enfatizzare il ruolo chiave del Qatar, e far dimenticare invece le stragi dei lavoratori, migliaia (per il Guardian, oltre seimila vittime nei cantieri, l’ultima qualche giorno fa, mentre stava intervenendo all’ottavo piano dell’albergo che ospitava la delegazione dell’Arabia Saudita), ma anche il Qatargate di queste ore: attenzione, è stato il messaggio di Doha a Bruxelles, noi non c’entriamo. Se ci coinvolgerete, addio alle forniture di gas. E chi è il primo cliente? Proprio l’Italia, seguita dalla Francia. Non a caso, con l’alibi di essere presente alle ultime partite cruciali dei Bleus, il presidente Macron si è fiondato in Qatar. Tifo e affari.

Rassicurazioni sulle forniture, in cambio di commesse militari. E rassicurazioni sullo stretto legame di Parigi con Doha (a proposito: la Procura della capitale francese aveva aperto nel 2015 una imbarazzante inchiesta su un presunto accordo segreto dell’Eliseo con gli emiri qatarioti, a proposito di appoggi politici alla controversa candidatura per il Mondiale). Come si vede, intrighi di palazzo e di investimenti. Un do ut des. Mascherati dal bisht che di solito si infila sopra un thobe, la tunica lunga sino alle caviglie. A me ha ricordato quelle vestagliette trasparenti e maliziose che indossavano le ragazze del Moulin Rouge (non me ne abbiano gli eventuali lettori arabi), prima di cominciare i loro piccanti numeri. Paese che vai, usanza che trovi.

Il calcio del futuro sarà costretto a confrontarsi (o subire) cultura e stili di vita diversi e, sicuramente nei Paesi in cui i diritti civili sono solo simulacri, biechi espedienti propagandistici.

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