Attualità

Prima della Scala, il Boris Godunov è un trionfo: 13 minuti di applausi per l’opera russa che scaccia così le polemiche. Affollato il palco reale con Meloni, Mattarella e von der Leyen

Il racconto della serata dalla Scala: la Prima dell’opera russa, capolavoro di Modest Musorgskij che mercoledì 7 dicembre ha inaugurato la Stagione d’Opera 2022/23 del Teatro alla Scala di Milano, è stata anche l'occasione per ribadire la posizione politica dell'Italia e dell’Europa riguardo all’attacco all’Ucraina da parte di Vladimir Putin, allontanando le polemiche della vigilia per la scelta di un'opera russa ad aprire la stagione scaligera

di Ilaria Mauri

Il maestro Riccardo Chailly ha la bacchetta pronta. È immobile nella sua concentrazione mentre guarda in alto verso il Palco Reale. Alle 18.06 dà inizio all’Inno di Mameli. Silenzio in sala. Musica. Poi ancora applausi e poi tocca all’Inno alla Gioia di Beethoven. Alle 18.11 Chailly abbassa lo sguardo. Sembra quasi che chiuda gli occhi ma non è così. Qualche secondo dopo con un movimento deciso, quasi una danza, dà inizio al Boris Godunov. La prima “Prima” di Giorgia Meloni da presidente del Consiglio, l’ennesima per Sergio Mattarella da Capo dello Stato e la più istituzionale di sempre, con il Palco Reale in “overbooking” tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, il presidente del Senato Ignazio La Russa, il sindaco di Milano Beppe Sala e il governatore uscente della Lombardia Attilio Fontana. Ma la Prima dell’opera russa, capolavoro di Modest Musorgskij che mercoledì 7 dicembre ha inaugurato la Stagione d’Opera 2022/23 del Teatro alla Scala di Milano, è stata anche l’occasione per ribadire la posizione politica dell’Italia e dell’Europa riguardo all’attacco all’Ucraina da parte di Vladimir Putin, allontanando le polemiche della vigilia per la scelta di un’opera russa ad aprire la stagione scaligera. E per confermare, se ce ne fosse bisogno, l’apprezzamento del Paese nei confronti del Presidente Mattarella, salutato anche quest’anno con una standing ovation con cori d’apprezzamento ed oltre cinque minuti di applausi al suo ingresso nel palco centrale, come già accaduto lo scorso anno quando il pubblico gli chiese a gran voce il ‘bis’ al Quirinale poi effettivamente avvenuto.

Ad applaudirlo anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, elegantissima in un raffinato abito blu Armani, tinta scelta anche da von der Leyen. Ed è stata proprio la presidente della Commissione Ue ad usare le parole più dure al suo arrivo in un teatro: “Penso che i compositori russi come Musorgskij o Cajkovskij siano fantastici cosi come Tolstoij o Dostoevskij. Non dovremmo permettere che Putin distrugga questo fantastico Paese”. Opera che, per inciso, parla di uno zar che muore roso dal rimorso dei suoi delitti. “Un auspicio” ha commentato il presidente della Lombardia Attilio Fontana, che ha approfittato dell’occasione per annunciare un passo indietro nel taglio dei contributi al teatro, almeno per l’anno in corso. “Noi non ce l’abbiamo col popolo russo, con la storia russa, noi ce l’abbiamo con scelte di chi politicamente ha deciso di invadere una nazione sovrana. È una cosa diversa, secondo me è giusto mantenere le due dimensioni”, le ha fatto eco Meloni. Sulla stessa linea Sergio Mattarella: “La grande cultura russa è parte integrante della cultura europea. È un elemento che non si può cancellare. La responsabilità della guerra va attribuita al governo di quel Paese, non certo al popolo russo o alla sua cultura”, ha detto il Capo dello Stato. Opinione condivisa anche dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, presente con quello del Made in Italy Adolfo Urso, delle Riforme Maria Elisabetta Casellati e dell’Università Anna Maria Bernini. Una partecipazione record da parte del mondo delle istituzioni che ha messo a dura prova l’organizzazione dei posti in teatro: affollatissimo il palco reale, con gli accompagnatori finiti in seconda fila e il governatore Attilio Fontana addirittura in terza. In sala, il tradizionale pubblico del Sant’Ambrogio meneghino, con personalità del mondo della cultura, dell’economia quali la senatrice a vita Liliana Segre, Alessandro Baricco, Roberto Bolle, Luca Formenton, gli architetti Stefano Boeri e Mario Botta; e poi Mario Monti, la presidente della Rai Marinella Soldi con l’Ad Carlo Fuortes, gli attori Stefano Accorsi, Sonia Bergamasco e molti altri.

Alla fine, la 25esima rappresentazione scaligera del capolavoro della lirica russa è stata un trionfo, che ha spazzato via simbolicamente tutte le rimostranze, in primis quelle dell’ambasciata ucraina in Italia secondo cui sarebbe stato, infatti, inopportuno in questo periodo rappresentare un’opera incentrata su uno zar ingordo di potere. “Con Boris Godunov presentiamo un capolavoro della storia dell’arte, non significa che sia un appoggio alla politica russa, sono cose diverse”, ha detto il sovrintendente Dominique Meyer nel Foyer prima dell’esecuzione dell’opera. D’altra parte, mai come quest’anno alla Scala è andata in scena una celebrazione di quella cultura sinergica europea che il mondo ci ammira e invidia: lo spettacolo è stato infatti ideato da un regista danese coadiuvato da una scenografa britannica, con l’orchestra guidata da un prestigioso direttore italiano e una compagnia di canto composta in gran parte da voci russe (ma c’è pure un tenore ucraino). Un esempio encomiabile di unità e collaborazione che stride con il momento politico attuale, segnato da un violento, sanguinoso conflitto armato nel cuore stesso dell’Europa. Anche per questo è apparso ancor più immediato e toccante il parallelismo tra fra la guerra di oggi, con tutta la sua violenza, e l’estrema attualità della denuncia che Musorgskij (nel 1869) fa della spietata ‘sete di potere’, politico, economico, alla base di tutte le guerre come di tutti gli orrori commessi dall’uomo. Il suo Boris Godunov è l’emblema del tiranno di shakespeariana memoria e ci ricorda come la storia della Russia (ma non solo) si sia macchiata di sangue nella successione al potere. Nella solitudine della sua disperazione è uno zar ma è anche un uomo. La verità che emerge non è in contrapposizione a lui come singolo individuo: l’opera suggerisce infatti una visione più ampia. Da un lato c’è il potere con i suoi simboli, dall’altro la narrazione e la manipolazione che ne ne viene fatta. Allora come ora.

La magia è iniziata con l’apertura del sipario. Una grande pergamena si è srotolata in scena dall’alto come un fiume su cui è scritta la storia. Grigio, rosso, bianco, colori netti che segnano le differenze fra il popolo e chi comanda il popolo. L’oro incandescente di una porta che si apre. Il coro è attorno, apparentemente compatto, coeso. Eppure ognuno di loro è un singolo a formare la massa. L’episodio che precede l’ingresso di Boris, interpretato da un grandissimo Ildar Abdrazakov, vibra di tensione. La sua incoronazione a zar è solenne. Quando la scena si sposta al convento dove il monaco Pimen sta terminando la sua cronaca della storia russa predomina l’oscurità. Il racconto che Pimen fa a Grigorij, il novizio che si fingerà lo zarevič Dimitri assassinato e legittimo erede, è emozionante. Sulla grande pergamena appare anche l’immagine di una madre con un bimbo insanguinato in braccio. E’ forte. E’ la narrazione della brutalità del potere. Il primo atto si chiude con il falso zarevič che fugge. Si rifugia in un’osteria (uno dei momenti in cui vi è una parte femminile) e va oltre il confine.

La seconda parte rivela tutto il carisma di Abdrazakov, eccellenza nel canto ma anche personalità straordinaria. Fra le scene più coinvolgenti quella in cui Boris crede di vedere il fantasma del bimbo che ha ucciso. Ricorda ogni dettaglio di quel gesto generato dall’ambizione sfrenata, persino il giocattolo che il piccolo teneva in mano. I rimorsi lo attanagliano, la sua mente ormai è dimora di allucinazioni. Nel momento finale la morte è la chiusura di un cerchio. La fine dell’usurpatore arriva quando Pimen, condotto davanti a Boris, lo mette davanti al suo delitto, raccontando dello zarevic morto. Boris non regge più: la mente sconvolta gli fa vedere decine di zarevic, impazzisce e muore. Ma il colpo di grazia, che manca nel libretto originale, viene – nella regia di Holten – inferto con un coltello da un sicario, proprio come per lo zarevic assassinato, mentre Grigorij entra trionfante in scena

Alla chiusura del sipario il pubblico ha applaudito lungamente tutti gli interpreti. Ben tredici minuti di battimani con tanto di canonico lancio di fiori dal loggione, più un’ovazione per il protagonista, il basso russo Abdrazakov (Boris), vero mattatore della serata, insieme a un grande coro scaligero (il popolo russo) diretto da Alberto Malazzi, con quello di voci bianche istruito da Bruno Casoni; poi Ain Anger (il monaco Pimen) e Dmitry Golovnin (Grigorij) e tutti gli altri interpreti. Magnifica la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Kasper Holten, capace di valorizzare ogni aspetto del racconto. Un cast di altissimo livello che si è mosso tra le suggestive scenografie disegnate da Es Devlin, e con i sontuosi costumi creati Ida Marie Ellekilde, immersi in un’atmosfera cupa ammantata dalle luci di Jonas Bough e dai video di Luke Halls.

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