“Sia Aleksandar Vucic che Albin Kurti non hanno concordato una soluzione, entrambi hanno la piena responsabilità per il fallimento dei negoziati odierni e per qualsiasi escalation e violenza che potrebbe verificarsi sul campo”. Poche parole che dicono tutto, pronunciate dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri UE Josep Borrell, che ha svolto il ruolo di mediatore in un incontro a Bruxelles lunedì 21 novembre tra i leader di Serbia e Kosovo nell’ormai famosa questione delle targhe, ovvero sulla norma voluta da Pristina che obbliga la reimmatricolazione delle auto con targa serba in Kosovo. Una legge che Pristina vorrebbe applicare anche per la minoranza serba presente nel nord del Paese, la più numerosa del Kosovo e composta da 100mila persone, che però si rifiutata, forte dell’appoggio di Belgrado. Kurti non vuole un’Associazione dei comuni serbi e vorrebbe che la discussione di questa norma portasse, alla fine, a un riconoscimento reciproco tra Belgrado e Pristina. Vucic, dal canto suo, non ne vuole sapere di accettare l’indipendenza del Kosovo, che è di fatto dal 2008, e spinge per una maggiore tutela della minoranza presente nei confini kosovari. Una situazione che rischia di destabilizzare l’area, nonostante la presenza del comando Nato-Kfor guidato dal Generale di Divisione Angelo Michele Ristuccia. Sulla crisi nell’area è intervenuto anche un portavoce della Commissione Europea confermando che oggi vi sarà l’incontro fra i capi negoziatori di Belgrado e Pristina, Petar Petkovic e Besnik Bislimi. “È la peggiore crisi che abbiamo visto da anni nelle relazioni fra Kosovo e Serbia. L’obiettivo – ha precisato – è di trovare una via di uscita in spirito europeo”.

La posizione di Belgrado – Il sostegno di Vucic e del governo di Belgrado alla minoranza presente a Mitrovica e nel nord del Kosovo, dove i serbi si sono dimessi in massa dalle istituzioni pubbliche, è nota già da tempo. Non è un caso, infatti, che il presidente serbo abbia addirittura premiato coloro che avevano lasciato le istituzioni kosovare e, dopo l’incontro a Bruxelles, abbia dichiarato: “Voglio dire alla gente di Kosovo e Metochia che saremo con loro, che il loro Paese, indipendentemente da tutto, sarà con loro”, ricevendone i rappresentanti in serata a Belgrado. Al termine dell’incontro il presidente serbo ha ribadito: “Noi vogliamo solo proteggere i nostri. Abbiamo chiesto loro di essere attenti e calmi, di preservare la pace e la stabilità e di rispondere all’arroganza degli altri nel modo in cui rispondono sempre le persone perbene. Sono sicuro che mostreremo maturità come nazione e che preserveremo i nostri focolari”. Belgrado spinge perché la comunità serba venga tutelata da una sorta di Associazione dei comuni, ma non sembra gradire la proposta della comunità internazionale (contenuta soprattutto nel documento congiunto di Francia e Germania) di riconoscere il governo di Pristina, su cui anzi cerca di far ricadere la maggior parte delle colpe: anche per questo li definisce albanesi e non kosovari. “La parte serba è stata completamente costruttiva e stavamo accettando i testi che sono stati modificati dieci volte, ma la parte albanese non voleva accettare nulla, nemmeno per un secondo, aggiungevano sempre qualcosa che chiaramente non era possibile”, ha dichiarato Vucic ai giornalisti subito dopo l’incontro con Kurti e Borrell. Il riferimento è alla richiesta serba di una targa KS neutrale, che non riporti il simbolo della Repubblica kosovara. Richiesta respinta da Kurti.

Il muro di Pristina e la mediazione da Washington – Quanto richiesto da Belgrado, cioè la creazione di una Comunità delle municipalità serbe in territorio kosovaro, era stato a suo tempo incluso nel cosiddetto Accordo di Bruxelles, firmato nel 2013 dal presidente serbo Ivica Dacic e dall’allora primo ministro kosovaro Hashim Thaçi. Quanto fatto allora non è oggi riconosciuto da Kurti, che si rifiuta di creare un ente esecutivo in territorio kosovaro legato in modo diretto a Belgrado. Non è passato così tanto tempo dalla chiusura, dopo l’accordo di Bruxelles di 9 anni fa, di un regolare Ufficio del Ministero degli Interni serbo a Leposavić, comune del nord Kosovo dove la minoranza era ed è ancora oggi schiacciante maggioranza, e dalla dismissione dell’uniforme di Belgrado da parte dei soldati serbi per indossare quella del nuovo Paese. Per questa ragione Pristina punta ad ottenere qualcosa di più, cioè un riconoscimento vero e proprio da Belgrado. “Non possiamo trasformarci in leader di stato che si occupano solo di targhe automobilistiche e non parlano di come normalizzare le loro relazioni”, ha dichiarato il premier Kurti dopo l’incontro di Bruxelles. Un ulteriore segnale distensivo è giunto al rientro del premier in Kosovo: su pressione di Washington e del suo ambasciatore nei Balcani, Jeff Hovenier, Kurti ha rinviato di 48 ore, dall’originario termine del 22 novembre al 24, la deadline oltre la quale verrà comminata una multa di 150 euro a tutti coloro che avranno targhe non immatricolate nel piccolo Stato balcanico. Una questione che però i serbi kosovari non sembrano accettare, visto che per loro è soprattutto identitaria: quelle targhe, infatti, spesso risalgono al 1999, quando il territorio era ancora parte della Jugoslavia, e sono state sempre rinnovate negli anni da Belgrado, che ha cercato di mantenere un legame con quegli abitanti.

Il ruolo dell’Italia – Anche Roma ha deciso di tentare una mediazione tra le due parti. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro della Difesa Guido Crosetto hanno fatto la spola tra la Serbia e il Kosovo per dialogare con i rispettivi leader. “Diremo ai kosovari che iniziative unilaterali non servono a raggiungere un compromesso, vogliamo che riparta il dialogo e il confronto. Tocca a noi fare in modo, come italiani, di svolgere un ruolo di pacificatori. Continueremo a svolgere un ruolo di garanzia sia per la minoranza serba in Kosovo sia per i kosovari”, ha dichiarato Tajani in conferenza stampa all’ambasciata italiana a Belgrado dopo l’incontro con il governo serbo. L’intenzione di Roma è quella di rappresentare un punto di riferimento per l’intera regione. “L’Italia vuole essere protagonista nei Balcani e svolgere un ruolo di primo piano, portare la pace impegnandosi in tutta l’area con i suoi molti uomini in uniforme, non soltanto al confine tra la Serbia e il Kosovo, e che sono strumenti della nostra politica estera”, ha concluso il ministro degli esteri. Infatti, il contingente italiano è il più numeroso all’interno della pattuglia Nato-Kfor, istituita nel lontano 1999 ai sensi della risoluzione 1244 delle Nazioni Unite: ad oggi sono presenti ben 715 militari, escludendo il capo della missione Ristuccia. Proprio il comandante mantiene aperti tutti i canali di dialogo, tra cui quello con il comandante della Missione UE per lo Stato di Diritto (EULEX); i rappresentanti delle istituzioni temporanee e delle organizzazioni di sicurezza a Pristina, nonché il Capo di Stato Maggiore della Forze armate serbe. Un attore dal ruolo non trascurabile, specie nel prosieguo delle trattative tra le parti e nel caso di tensioni tra le parti proprio nel territorio kosovaro dove sono presenti gli italiani.

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