Che il Covid prima e la guerra in Ucraina poi abbiano messo in crisi la globalizzazione è sostenuto da molti economisti. A sostegno di questa tesi viene spesso citato il fenomeno del reshoring, ovvero il rientro della produzione o della catena di fornitura in precedenza delocalizzate all’estero. Un fenomeno che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni ma che, in realtà, era iniziato prima dello scoppio della pandemia del 2020. Secondo un report del gruppo di ricerca Uniclub MoRe, al 30 maggio 2020 171 aziende italiane avevano “rimpatriato” l’intero ciclo produttivo o alcune sue fasi. In testa il Veneto con 54 decisioni, seguito, a distanza, dall’Emilia-Romagna (28).

A delineare il quadro della situazione attuale, invece, è una recente analisi realizzata dal gruppo di ricerca Re4It insieme al Centro Studi Confindustria, dal titolo “Processi di reshoring nella manifattura italiana”. L’indagine, avviata a giugno 2021 e completata a febbraio 2022, arriva alla conclusione che circa il 30% delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato all’estero ha deciso di invertire la rotta, ripotando la produzione in tutto o in parte in Italia, oppure sostituendo i fornitori stranieri con fornitori italiani. Certo, non sempre la chiusura di attività delocalizzate comporta il loro rimpatrio. Spesso, infatti, le imprese scelgono di spostare la produzione in un paese più vicino (nearshoring) o addirittura in un posto ancora più lontano (further offshoring).

Delle 762 imprese analizzate, il campione a cui fare riferimento è rappresentato da quelle 121 imprese che in precedenza avevano delocalizzato (offshoring), le uniche, quindi, che possono riportare in Italia la produzione (backshoring). “Soltanto il 16% dei rispondenti” si legge nello studio, “potrebbe aver attuato una strategia di rilocalizzazione delle fasi produttive precedentemente localizzate all’estero, mettendo in evidenza che il fenomeno del backshoring produttivo può riguardare, già ex-ante, un numero molto limitato di imprese italiane”.

Insomma, la gran parte delle aziende, pari all’84% del campione, produce solo nel nostro paese. Le cose stanno in modo diverso se si allarga lo sguardo, risalendo lungo la catena del valore. In questo caso, le imprese che si approvvigionano all’estero per le materie prime o per i semilavorati sono ben il 73% del campione analizzato. Entrando nel dettaglio della ricerca, emerge che nel gruppo delle 121 aziende potenzialmente interessate al rientro in Italia, il 55% non ha intenzione di modificare la propria scelta di produrre all’estero mentre il 30% ha dichiarato di aver cambiato strategia. In particolare, il 16,5% delle imprese ha scelto di attuare un backshoring della produzione (totale o parziale) e più del 12% ha dichiarato di aver programmato di riportare in Italia la produzione, al momento situata all’estero, nel giro di tre-cinque anni. Una percentuale leggermente inferiore, il 14%, ha invece optato per un cambio di localizzazione restando però sempre in un paese straniero.

Ma cosa spinge le imprese a tornare? La principale motivazione è costituita dalla necessità di migliorare la qualità del bene e del servizio offerto, ad esempio attraverso una riduzione dei tempi di consegna, una migliore performance in termini di qualità e una maggiore reattività ai bisogni del cliente. Venendo al backshoring dei fornitori, ben 568 delle imprese analizzate (pari al 74,5% del totale) compravano all’estero i beni necessari alla produzione. Ebbene, 120 aziende, ovvero il 21,1%, negli ultimi cinque anni hanno deciso di rifornirsi in Italia, mentre quasi l’11% ha optato per comprare interamente da imprese nazionali. Oltre all’esigenza di accorciare i tempi di consegna, a spingere per il ritorno è, anche in questo caso, soprattutto la “disponibilità di fornitori idonei”. “Tale risultato” si legge nello studio “dimostra che l’expertise e il know-how italiano rappresentano ancora il principale valore aggiunto delle filiere locali”.

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