La Cedu – Corte Europea dei diritti umani – ha condannato per la settima volta (la quarta solo nel 2022) lo Stato italiano per non aver tutelato una donna vittima di violenza e i suoi figli. Dopo la condanna del 2017 per il caso Talpis su ricorso di Titti Carrano, avvocata D.i.Re donne in rete contro la violenza (che ha ottenuto anche la condanna per il caso J.L. contro Italia nel 2021), i tribunali italiani sono stati condannati ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora.

Quando si spezzerà la lunga sequela di condanne inflitte all’Italia (Talpis, V.C., J.L., Landi, De Giorgi, M.S ed ora I.M.) perché una parte della magistratura non sa (ancora) leggere la violenza maschile contro le donne? Le vittime non sono tutelate a causa di decreti ciechi, di inerzia nei provvedimenti, di pregiudizi sessisti nelle motivazioni delle sentenze, in sintesi, per diffidenza verso le donne che svelano violenze. Questa volta, la condanna per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, è arrivata su ricorso – I.M contro Italia ( 25426/20) – dell’ avvocata Rossella Benedetti di Differenza Donna. È il caso di una donna accolta al Centro antiviolenza di Villa Pamphili. Il tribunale aveva disposto incontri tra i figli minori della donna e il padre, nonostante questo fosse stato denunciato per maltrattamenti e continuasse ad avere comportamenti violenti persino durante le visite.

I giudici della Cedu hanno rilevato un pregiudizio per la donna e i minori: “Lo Stato italiano ha mancato al suo dovere di protezione e assistenza durante gli incontri organizzati con il padre dei bambini, tossicodipendente e alcolista, accusato di abusi e minacce durante le visite. Il caso – continua la Cedu – riguarda anche la decisione dei tribunali nazionali italiani di sospendere la responsabilità genitoriale della madre considerata come un genitore ostile agli incontri con il padre, in quanto rifiutava essere presente a causa delle violenze commesse dall’uomo”. La Corte ha rilevato che “le riunioni tenutesi a partire dal 2015 hanno turbato l’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini costretti a incontrare il padre in condizioni che non garantivano un ambiente protettivo. Il loro miglior interesse è stato, quindi, trascurato con l’essere costretti a incontri che si svolgevano in tali condizioni”.

I giudici del tribunale di Roma, secondo la Cedu, “non hanno esaminato attentamente la situazione della madre e dei figli e hanno deciso di sospenderle la potestà genitoriale sulla base di un presunto comportamento ostile agli incontri padre-figli e all’esercizio di co-genitorialità, senza tener conto di tutti gli elementi rilevanti del caso” e senza fornire “ragioni sufficienti e pertinenti per giustificare la decisione di sospendere la responsabilità genitoriale per il periodo compreso tra maggio 2016 e maggio 2019″.

Ora i due bambini otterranno un risarcimento di 7mila euro a testa dallo Stato italiano. Ancora una volta si applica la cosiddetta bigenitorialità in maniera acritica calandola in qualunque situazione, anche quando c’è violenza. Se una madre si oppone all’affidamento condiviso e agli incontri col padre può essere accusata di ostilità verso la bigenitorialità, può subire pressioni da parte dei servizi sociali, fino ad essere punita perché vuole tutelare i figli e trovarsi sospesa dalla responsabilità genitoriale o adirittura dichiarata decaduta. Le donne che svelano violenze e chiedono aiuto allo Stato possono trovarsi dentro un processo kafkiano, soprattutto in tribunali del nord e nord-est che da vittime le trasforma in colpevoli e devono intraprendere lunghe, estenuanti e costose battaglie legali per difendersi anche da Ctu – che le accusano di essere alienanti, ostative, malevole, adesive, pollyanniche, sulla base di fantasiose definizioni che ripropongono la Pas (sindrome da alienazione parentale) in diverse salse.

Questo avviene in violazione dell’articolo 31 della Convezione di Istanbul in tema di custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza che impone di prendere in considerazione gli episodi di violenza nel momento di determinare i diritti di visita e chiede che siano adottate le misure legislative necessarie per garantire che “l’esercizio dei diritti di visita o di custodia non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini”. Le isitituzioni italiane hanno anche un’altra grave mancanza: non valutano il rischio previsto dall’articolo 51 della Convenzione di Istanbul che prevede sia preso in considerazione “il rischio di letalità, la gravità della situazione e il pericolo di reiterazione” dei comportamenti violenti per garantire “un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”.

Sono trascorsi 13 anni dall’uccisione di Federico Barakat durante una visita protetta con un padre violento denunciato per violenza e sono trascorsi appena 3 anni dall’assassinio di Gloria Danho per mano del padre che aveva potuto tenerla con sé. Il dogma della bigenitorialità e la sua preziosa alleata, l’alienazione parentale, sono gli espedienti che i violenti usano nei percorsi separativi per continuare a vessare le ex compagne attraverso i figli.

Lo denunciano, da molto tempo, i centri antiviolenza. Lo ha rilevato la commissione sul femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente, il rapporto del Grevio (l’organismo che monitora la corretta applicazione della Convenzione di Istanbul) e ora lo rileva ora anche la Cedu con una condanna storica che auspichiamo sia l’inizio di un cambiamento radicale che metta la parola fine alla vittimizzazione istituzionale. Che questa sentenza non sia ammortizzata e assorbita dagli invalicabili muri di gomma che si erigono, senza coscienza, nelle istituzioni di questo Paese.

@nadiesdaa

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