Il nome del ministero cambia: sparisce la transizione ecologica cara a Beppe Grillo, sostituita da un più tradizionale “ambiente e sicurezza energetica” che richiama l’emergenza di questi mesi. Ma con il nuovo governo la posizione italiana sul tema non si sposterà di una virgola. Perché il nuovo ministro Gilberto Pichetto Fratin, pur assai più diplomatico rispetto al predecessore Roberto Cingolani, su passaggio all’auto elettrica, nucleare, estrazione di gas dai giacimenti nazionali e messa al bando della plastica monouso ha idee perfettamente sovrapponibili a quelle del fisico ed ex manager di Leonardo. Con cui del resto il commercialista piemonteseberlusconiano della prima ora – ha condiviso nei 20 mesi da viceministro allo Sviluppo dell’esecutivo Draghi battaglie come quella per ammorbidire il previsto stop europeo entro il 2035 alla vendita di nuove macchine a benzina e diesel. Un dossier che ha seguito da vicino nelle vesti di vice di Giancarlo Giorgetti con delega alle politiche industriali e soprattutto di coordinatore del tavolo automotive. Di certo, insomma, conosce l’argomento meglio della pubblica amministrazione – incarico a cui la neopremier Giorgia Meloni l’ha destinato per qualche ora a causa di un incredibile errore di trascrizione nella stesura della lista dei ministri.

Pichetto, classe 1954, originario del paesino di Veglio, dopo la laurea in Economia per qualche anno ha insegnato ragioneria in un istituto tecnico biellese. Ha esordito in politica, ventenne, come consigliere comunale per il Partito repubblicano nella minuscola Gifflenga. Nel 1995, dopo un decennio da vicesindaco a Biella, folgorato da Forza Italia è approdato al consiglio regionale del Piemonte. Il salto in Parlamento è arrivato nel 2008, con l’elezione a senatore per il Pdl. Nel 2013 la prima beffa: l’allora segretario nazionale del partito Angelino Alfano, candidato ed eletto in più collegi, opta per il seggio piemontese e glielo sottrae. Il governatore Roberto Cota lo richiama in Regione come assessore al Bilancio e vicepresidente. L’anno dopo arriva un altro schiaffo: gli offrono di correre per la presidenza come candidato del centrodestra, ma Fratelli d’Italia si sfila e sostiene Guido Crosetto, oggi braccio destro della premier e neo ministro alla Difesa. Alla fine, come si sa, vince Sergio Chiamparino.

Avanti veloce di qualche anno: rieletto al Senato, nel 2020 Pichetto viene scelto come responsabile nazionale del dipartimento Finanze e Bilancio di Forza Italia. Alla nascita del governo Draghi arriva la nomina a viceministro. Ha anche la delega alla concorrenza e segue passo passo la tormentata partita del disegno di legge su cui la ex maggioranza si è più volte spaccata. Lui si fa portavoce del partito della responsabilità: quella riforma è uno dei capisaldi del Pnrr, va mandata in porto a ogni costo. Firma l’emendamento di compromesso sulle concessioni balneari che a fine maggio consente di superare un lungo stallo e festeggia il “punto di equilibrio tra posizioni anche decisamente contrapposte”.

Anche sul fisco, da commercialista, sceglie il registro della cautela: sta in un partito che tifa per la flat tax al 23% per tutti, ma quando siede al tavolo sulla riforma fiscale con l’ex ministro Daniele Franco e i delegati degli altri partiti spiega che l’unica prospettiva realistica è quella di “un taglio delle aliquote e la cancellazione dell’Irap in una proiezione ventennale-trentennale” e auspica come massima ambizione l’arrivo a tre aliquote (contentino: quella del 23%, applicata ai redditi da 25mila a 65mila euro, sarebbe “una sorta di flat tax per la classe media”). Più di recente ha ammesso che per il prossimo anno non c’è spazio di manovra e al massimo si può pensare all’aliquota piatta sul reddito incrementale (non a caso cara a Meloni). Per quanto riguarda la crisi energetica – e qui si arriva alla partita del momento, che lo vedrà protagonista – si è detto a favore sia di una semplificazione radicale nelle procedure autorizzative degli impianti da rinnovabili sia dei rigassificatori e di un raddoppio della produzione di gas nazionale per “arrivare ad almeno 8-10 miliardi di metri cubi” annui. L’atomo? “Quando parliamo di Europa, di avere regole comuni, dovremmo avere anche comuni sistemi di produzione energetica. Il nucleare dovrebbe essere una scelta non solo francese“. Il tutto in nome dell'”indipendenza energetica”.

La postura da gran moderato lo abbandona quando avvista rischi per gli interessi dell’industria. La plastic tax, per fare un esempio, gli fa orrore: “La considero un assurdo perché va a colpire le nostre imprese”, ha spiegato prima che fosse nuovamente rinviata tra le proteste di Greenpeace e dei Verdi. Anche l’idea di fermare l’immatricolazione delle auto con motore endotermico lo disturba: “È una soluzione molto ideologica e poco realistica”, commentava l’8 giugno dopo il via libera dell’Europarlamento al pacchetto Fit for 55. “Continuo a non immaginare il Gran Premio di Monza senza il rombo del motore delle auto in pista. Bisognava ridurre le emissioni in modo graduale tenendo conto della realtà che stiamo vivendo”.

Una profonda apprensione per la Formula 1 condivisa con Cingolani, turbato per le sorti della Motor Valley a partire dalla Ferrari di cui è stato consigliere di amministrazione. A fine giugno i due hanno tirato un sospiro di sollievo perché il Consiglio Ue, pur bocciando la proposta italiana di una proroga al 2040, ha concesso una deroga ai produttori di nicchia e accettato di rivalutare nel 2026 gli sviluppi tecnologici fatti nel frattempo, lasciando aperto uno spiraglio per motori endotermici e carburanti sintetici. “Il compromesso non può essere di piena soddisfazione per un grande paese produttore di componentistica quale è l’Italia ma è sicuramente un passo in avanti”, la lettura di Pichetto. Che nel frattempo, e a ragione, predicava la necessità di “essere pronti, puntuali e tempestivi nell’accompagnare il cambiamento” di un settore che vale “il 20% del Pil del Paese”, “occupa direttamente 270-280mila persone con 50 miliardi di fatturato diretto” e arriva a 1,2 milioni di occupati con l’indotto. La lobby di settore, Anfia, ritiene che il passaggio all’elettrico ne metta a rischio 70mila.

L’importante, come sostengono sia le imprese sia i sindacati, sarebbe gestire la transizione aiutando chi lavora nella componentistica e nelle fasi a valle a riqualificarsi in modo da poter essere reimpiegato, per esempio, nel comparto delle batterie o nello sviluppo delle infrastrutture per l’elettrico. Da questo punto di vista ben venga la convocazione del tavolo automotive, ma di qui a una solida politica industriale la distanza è lunga. “E’ stato creato un fondo di sostegno da 8,7 miliardi di qui al 2030, ma gli incentivi messi in campo sono vecchi e non condizionati all’impatto occupazionale”, spiega Simone Marinelli, coordinatore nazionale auto per la Fiom-Cgil. “L’ultimo governo, in continuità con i precedenti, non ha messo a punto un piano che dica quali obiettivi ci poniamo come Paese. Vogliamo produrre centraline, batterie, motori elettrici, colonnine di ricarica? Tutto è lasciato all’iniziativa delle aziende. E mancano strumenti stabili per accompagnare i lavoratori nella transizione: per esempio la Gigafactory di Stellantis a Termoli andrà a regime solo tra 8 anni, ma il fondo nuove competenze è rifinanziato solo fino al 2023″. Insomma si naviga a vista, si impegnano fondi senza collegarli alla tutela dell’occupazione e dei salari.

L’eredità è questa, ma ora la patata bollente passa nelle mani di Adolfo Urso. Pichetto dovrà fare i conti con altri dossier, i più caldi sul tavolo del nuovo governo. Draghi si congeda dopo un Consiglio europeo che ha raggiunto un’intesa di massima su un tetto “dinamico” al prezzo del gas, ancora tutto da dettagliare: se ne parla a novembre. La prima mossa di Meloni sarà giocoforza un decreto per prorogare almeno fino a fine anno i sostegni alle imprese contro il caro bollette, che non coprono il mese di dicembre.

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