Il 16 ottobre inizia il ventesimo congresso del Partito comunista cinese, che oggi ha circa 97 milioni di iscritti. Duemilatrecento delegati provenienti da tutto il paese “produrranno” (tecnicamente “eleggeranno”) il nuovo comitato centrale composto da circa duecento membri effettivi e centosettanta supplenti, cioè senza diritto di voto. Una volta costituito, il nuovo comitato centrale eleggerà il Politburo (25 membri), il comitato permanente del Politburo (7 membri attualmente, erano 9 nel periodo 2002-2012) e il segretario del Partito, cioè la carica suprema. Tutto il processo dovrebbe durare una settimana-dieci giorni, quindi per fine ottobre conosceremo la composizione della futura leadership cinese.

Di congressi ce n’è uno ogni cinque anni, ma quelli con numero pari sono i più importanti, perché è lì, ogni dieci anni, che di solito avviene il cambio della leadership. Così, Xi Jinping si è insediato nel diciottesimo congresso del 2012 e, secondo le vecchie regole, avrebbe dovuto passare la mano proprio ora a vantaggio di una nuova generazione di leader (la “sesta generazione”), ma una modifica del 2018 allo statuto del Partito ha sancito che il segretario generale può rimanere in carica oltre i due mandati di dieci anni complessivi. La quinta generazione, ma più che altro il leader supremo Xi, non molla l’osso.

Xi Jinping ha 69 anni, di solito il limite anagrafico per gli incarichi di vertice è stabilito a 68, ma per lui questo non vale. L’unica certezza che si ha in questi giorni è infatti che resterà in carica per almeno un altro mandato (quindi, tecnicamente, sarebbe il terzo, per una leadership che attraversa tre congressi e tre comitati centrali, 18-19-20). Questo lo sanno tutti, non si discute: parlando “fuori onda” con fonti cinesi si percepisce come sia un argomento di cui è meglio non parlare neppure; più o meno ironicamente c’è chi dice che tutta la nazione “auspica” che lui resti ancora il numero uno. Più controverso è il destino dell’attuale numero due, Li Keqiang (67 anni), che all’ultimo Lianghui (“due sessioni”, la convocazione annuale dei due parlamenti cinesi, che di solito si tiene a marzo) ha annunciato che quello sarebbe stato il suo ultimo. Ma qui bisogna fare un distinguo: in Cina esistono cariche di Stato e cariche di Partito che tecnicamente non sono la stessa cosa. Xi Jinping è presidente della Repubblica Popolare Cinese e segretario generale del Partito comunista, così come Li Keqiang è premier e numero due nella gerarchia di Partito. Il fatto che non sarà più premier non significa automaticamente che non possa restare ai vertici nella nuova composizione del comitato permanente del Politburo (l’elite delle elite che governa di fatto il paese).

Il potere, in Cina, deriva quindi dall’accumulo di cariche: così, oltre a essere numero uno nel Partito e nello Stato, Xi Jinping è anche presidente della Commissione Militare Centrale, cioè capo dell’esercito. È lui il leader indiscusso, osservare chi occuperò gli altri posti di vertice darà forse qualche indicazione della traiettoria futura della Cina. Ma forse anche no, i criteri di selezione sono spesso sfuggenti, hanno a che fare con equilibri interni, rapporti di fedeltà, capacità.

Ci sono voci di corridoio secondo cui al posto di Li Keqiang, potrebbe diventare numero due Wang Yang (67 anni), attualmente il numero quattro della gerarchia. Artefice del “modello Guangdong” (la provincia più ricca del paese), Wang ha la fama di essere attento allo sviluppo economico e alle esigenze delle imprese private, nonché almeno in parte aperto (o tollerante) verso la società civile. Durante il suo incarico come leader del Guangdong ci fu l’esperimento di Wukan, la cittadina che si ribellò contro la leadership locale e a cui fu concessa un’elezione diretta – che fece il giro del mondo – per scegliersi quella nuova. Nella Cina di oggi, dove la sicurezza ha sostituito lo sviluppo economico come priorità politica, una eventuale collocazione di Wang in alto indicherebbe forse un prossimo cambiamento di rotta che però non è assolutamente nell’aria.

Un altro nome che circola è quello di Hu Chunhua (59 anni), detto “il piccolo Hu” (per distinguerlo dall’ex leader Hu Jintao), che sarebbe quindi un’anteprima della sesta generazione di leader, messo sotto l’ala protettrice di Xi. Stesso discorso per Chen Min’er (62 anni), segretario del Partito a Chongqing, megalopoli chiave della Cina centrale che negli ultimi dieci anni ha attraversato vicissitudini politiche di ogni genere, con defenestrazioni eccellenti – come quella dell’ex presunto rivale di Xi Jinping, Bo Xilai, e di un suo successore, Sun Zhengcai – ma anche luminose carriere, come nel caso di Zhang Dejiang, già membro del comitato permanente del Politburo durante il primo mandato di Xi.

Chiunque riesca a intrufolarsi nella stanza dei bottoni, sarà comunque soggetto a Xi Jinping, sempre più leader supremo. Sul numero uno e la natura del suo potere sempre più assoluto ci sono due scuole di pensiero.

La prima, vagamente hollywoodiana, propende verso l’interpretazione secondo cui l’individuo Xi, in una continua saga di potere, abbia gradualmente imposto un regime personalistico a tutte le correnti interne al Partito comunista nonché il proprio culto della personalità. A scanso di equivoci, questa visione non appartiene solo a osservatori esterni generalmente anti-cinesi, ma è diffusa anche all’interno della società locale. La seconda scuola di pensiero – a cui aderiamo senz’altro – propende piuttosto nell’identificare in Xi un prodotto del Partito comunista in una particolare fase della sua evoluzione. Dopo il “decennio perduto” di Hu Jintao-Wen Jiabao, anni in cui tra le altre cose la corruzione era al massimo e il consenso al minimo, il Partito comunista cinese ha deciso di puntare sull’uomo forte costruito in casa, un leader il cui carisma non fosse naturale come nel caso di Mao Zedong – intellettuale, vincitore della guerra antigiapponese e anti-Kuomintang – ma prodotto dallo stesso apparato. Ed ecco la campagna anticorruzione iniziata nei mesi precedenti all’insediamento di Xi nel 2012 – e continuata alla grande con lui al potere – nonché la costruzione di un nuovo culto della personalità basato sul “presidente di popolo”. Di fronte alle crescenti “turbolenze esterne” (il conflitto con gli Usa) e interne, Xi Jinping è la scelta dell’avanguardia leninista che non ha nessuna intenzione di rinunciare al potere.

In questo quadro, fin dal diciottesimo congresso che l’ha incoronato, Xi Jinping ha introdotto il concetto dei “due centenari”, cioè i due obiettivi di lungo periodo della Cina sotto la sua guida. Il primo: entro il 2021 (centesimo anniversario della fondazione del Partito comunista), la Cina diventerà “una società moderatamente prospera a tutti gli effetti”. Questo obiettivo è stato raggiunto l’anno scorso, almeno così ha detto lo stesso Partito durante le celebrazioni per i suoi primi cent’anni. Se guardiamo i dati del 2021, la Cina si colloca 79esima nel reddito nominale pro-capite su 216 paesi, con 12.556 dollari. Aggiungendo altri parametri, osserviamo che praticamente tutti i cinesi hanno accesso all’acqua potabile, sanno leggere e scrivere e possiedono un telefono cellulare (anzi magari due). Covid e altri problemi strutturali permettendo, diciamo comunque che la “società moderatamente prospera” è conseguita. Il secondo: entro il 2049 (centesimo anniversario della Repubblica Popolare), la Cina diventerà un “paese socialista forte, democratico, civile, armonioso e moderno”. Qui si entra nell’astrattezza, perché il 2049 è ancora lontano e perché ognuno dei termini sopra citati apre a problemi e disquisizioni infinite. Ma l’astrattezza è proprio un passe-partout per concedersi passi avanti e indietro, sterzate e aggiustamenti.

Nel progetto di lungo periodo, il Covid, la nuova guerra fredda con gli Usa, la guerra-guerreggiata in Ucraina, sono le circostanze interne ed esterne con cui fare i conti ora e subito. Ma per osservare il ventesimo congresso del Partito comunista, bisogna anche tener presente che l’obiettivo finale è il 2049, quando il “sogno cinese” (zhongguo meng) del “grande ringiovanimento della nazione cinese” (zhonghua minzu weida fuxing) – un’altra astrattissima elaborazione dell’era Xi – dovrà realizzarsi, qualsiasi cosa sia. E chissà se nel 2049 il 96enne Xi sarà lì ad assistervi.

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