Viali alberati, biancospini fioriti, sogni d’altri tempi e sferragliare di treni: cosa avrebbe potuto spingere Marcel Proust, in breve sosta a Torino-Porta Nuova arrivando da Venezia (e diretto a Parigi), a scendere e inoltrarsi per le strade della prima capitale d’Italia? L’attesa di Marcel è un pugno di istanti – scrive Mariolina Bertini nell’introduzione di Una città per Proust (Hacca, 2021) – dei quali si impadronisce l’autore – Bruno Quaranta – trasformando il momento in un aleph borgesiano, un distillato di cultura sabauda e francese. Mélange da evocare oggi, nel momento in cui i rapporti con i cugini producono le solite scintille. Nessun “volemose bene” o “embrassons-nous”, lasciateci la schermaglia: touché, en garde.

Ora i cugini ci mettono una mano sulla spalla per insegnarci la democrazia. Senza fare gli ecumenici – mi davano molto fastidio le posizioni su Cesare Battisti – è meglio tentare di capire perché noi italiani provochiamo loro sempre pensieri da “badanti”. Di certo sono molto auto-consapevoli – ecco, sarà una voce dal sen fuggita: faceva meglio Laurence Boone a tacere, anche Sergio Mattarella si è arrabbiato e ha fatto bene. O forse è l’amore per la liberté, o il fatto che lavora ancora sotterraneo il “vulnus” della “coltellata alle spalle”, quando l’Italia fascista li attaccò subito dopo l’invasione tedesca. La memoria collettiva è tenace. O forse sono euro-equilibrismi, nel momento in cui l’Europa lotta (male) per la sopravvivenza: “Non vogliamo pagare le vostre guerre”, dice sempre più gente.

Alla fine – lasciatemi citare un mio libro appena uscito sul tema: Tutt’intorno è Francia (TS, 2022) – “La Francia empatizza con noi, ma per le cose serie parla con la Germania; di economia ad esempio. Osserva noi per la Dolce vita. I francesi stanno nel mezzo – in Europa – a metà strada fra Spagna, Italia e Germania. Questo è il loro rimpianto, il loro orgoglio”. Anche il delizioso Una città per Proust (Hacca, 2021) di Bruno Quaranta è libro utilissimo per riflettere e viaggiare con la mente e il corpo, alimentare dialogo e riflessione. Trovare nuovi punti di vista e non cercare sempre nemici fa bene al fegato e alla democrazia.

Il libro è ricchissimo di echi, corrispondenze francesi e parigine, italiane, piemontesi e torinesi. Proust – noto flâneur – avrebbe potuto uscire da Porta Nuova e sostare davanti all’albergo dove scendeva Giolitti, in corso Vittorio Emanuele: nella Recherche vengono citati sia Giolitti che il Corriere della Sera. Poi si sarebbe inoltrato in via Sacchi – verso la casa di Norberto Bobbio – dice Quaranta nella bella intervista radiofonica di Livio Partiti (trasmissione Il posto delle parole). Bobbio metteva Thomas Mann al vertice della sua biblioteca, Proust gli sembrava più frivolo. Sbagliava. Comunque l’intellighenzia cittadina teneva in gran conto la Recherche: Natalia Ginzburg – protagonista di un capitolo – fu la prima a tradurla per Einaudi, sotto lo sguardo attento del marito Leone.

Un altro capitolo è dedicato a Guido Gozzano: la sua Agliè è gemellata con la Combray di Marcel, li accomuna il rapporto con le madri. E che dire di Cesare Pavese – che scopre l’America da Torino – e di Beppe Fenoglio (che non amava Proust) capace di dialogare col mondo anglosassone da Alba? Insomma, Bruno Quaranta è una lanterna magica. Scrittore e giornalista, esordì al giornale di Indro Montanelli (Arpino dirigeva l’inserto letterario), fu per trent’anni a Tuttolibri della Stampa al fianco di intellettuali come Lorenzo Mondo – da poco scomparso – Nico Orengo, Giorgio Calcagno, Alberto Sinigaglia e Mario Baudino, con i quali ho avuto la fortuna di lavorare.

Il suo libro è una porta che si schiude su un’avventura che poteva essere e non fu. Ma possiamo andare con la mente – vascello straordinario che porta ovunque – anche a nella proustiana Torino, città di antiche piazze e viali, ville e giardini “coi mille odori che vi sprigionano le virtù (anche piccole, quelle della Ginzburg, nda), la prudenza, le abitudini, tutta una vita segreta, invisibile, sovrabbondante e morale”.

Città del barocco architettonico e musicale, conserva gli spartiti inediti di Vivaldi. Proust amava la musica e un celebre “settimino”. Come Montaigne fu tra i pochi a usare nella scrittura l’improvvisazione jazz; il jazz tanto amato dai francesi (gli Acadiens, poi diventati cajun) che in Louisiana c’erano, quando fu inventato. La vita improvvisa spesso, va al ritmo che vuole: il Tempo non è una successione di attimi. La memoria – scrive Proust – è una specie di farmacia “dove mettiamo le mani a caso, ora su una droga calmante ora su un pericoloso veleno”.

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