È la scena clou del film di Andrew Dominik, che immotivatamente sta ricevendo critiche severissime e ipercorrette politicamente da maschi e femmine. Marilyn Monroe viene scortata come un pacco postale nel letto di Kennedy che parla al telefono. Una guardia del corpo annoiata se ne sta su una sedia fuori dalla stanza presidenziale, la porta è aperta. Non un bacio, una carezza, una parola. The President afferra con le mani la bionda testa di M e la spinge sul suo bacino con forza. Lei esegue la fellatio, umiliata. Lui continua a parlare al telefono, indifferente. Poi eiacula. Lei non sa se deglutire o no, vorrebbe pulirsi, lo fa con un lembo del lenzuolo. Si allontana spaesata, sporca, sperduta, umiliata umiliata umiliata. Il principe azzurro, l’ennesimo daddy, è un’altra fregatura, come Joe DiMaggio, come Arthur Miller, come il suo agente che l’ha stuprata al primo incontro. MM, la bambina spaurita, esaurita, vuota, è e rimane sola. Un’icona di carta. Come un pupazzo la portano via e la ributtano su un aereo per Los Angeles. Si toglierà la vita dopo poco.

Il regista Andrew Dominik (mi ricorda David Lynch), in pochi minuti, con la rappresentazione violentissima di un pompino subito, ci parla del potere di un maschio, l’uomo più potente del mondo e della solitudine di una star tanto amata quanto detestata. E ci risparmia il melenso seduttivo “Happy birthday Mr. President” cantato da MM (voce roca, vestito attillato, folle urlanti, Kennedy commosso) che ci hanno propinato in tutte le salse. Non credo che esista una donna che non abbia provato almeno una volta nella vita quel senso di non appartenenza, di svilimento verso se stessa. Che non abbia fatto sesso per compiacere il maschio di turno. Io per prima.

Grande film. Ana de Armas-Marilyn è un genio.

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