Convinzione prima, umiltà dopo. Prima della finale, ai ragazzi dell’Under 20 della nazionale italiana di pallavolo, Julio Velasco ha fatto un discorso. Convinzione per entrare in campo, umiltà dopo la vittoria. Che è arrivata domenica scorsa a Montesilvano, nella finale contro la Polonia, portando il sesto titolo europeo alle giovanili azzurre di volley nell’arco di due mesi e mezzo. Un risultato raro. L’avvio di un nuovo ciclo? Velasco, allenatore della Generazione di fenomeni tra il 1989 e il 1996 (due Mondiali, tre Europei e altri titoli con lui in panchina) e dal 2019 direttore tecnico delle squadre giovanili maschili, non lo crede: “La pallavolo è cambiata molto”. Fatto sta che i trofei conquistati dalle U18, U20 e 22 per i ragazzi, U17, U19 e U21 per le ragazze, arricchiscono il palmares della Federazione italiana pallavolo e premiano un attento lavoro con le nuove generazioni che da oggi, con l’inizio della Superlega e dei campionati maschili, dovranno trovare il loro spazio nei campi di gioco.

Velasco, come si arriva a questi risultati?
Queste vittorie, arrivate tutte insieme, sono eclatanti, senza dimenticare la vittoriale delle donne alla Volley nations league e il Mondiale vinto dagli azzurri. Le nazionali giovanili hanno avuto successo anche in passato, ma abbiamo fatto un ulteriore salto di qualità e ora la sfida sarà mantenere il livello, ricordando che se poi in futuro non vinceremo, qualcuno sarà sempre pronto a mostrare le crepe e dire che abbiamo sbagliato tutto. In Italia c’è un fondamentalismo dei risultati.

Come avete ottenuto questo salto di qualità?
La nostra non è stata una rivoluzione o una rifondazione, ci siamo appoggiati a quanto c’era già. Abbiamo cambiato metodologia di allenamento e preparazione, ma soprattutto andiamo alla ricerca dei giocatori del futuro, anzi del presente, e abbiamo coinvolto meglio le società, andando a parlare con presidenti, allenatori e preparatori. È stata una collaborazione molto proficua, la federazione ha investito mettendo a disposizione tre allenatori del settore giovanile e me, a tempo pieno.

Per le donne, c’è il lavoro del Club Italia, il club che raggruppa le giovani promesse, un progetto che lei ha voluto nel 1998 da allenatore della nazionale femminile. Da lì sono transitate moltissime delle azzurre in corsa al Mondiale: Alessia Orro, Paola Egonu, Cristina Chirichella, Elena Pietrini…
Sarebbe paradossale se alla nazionale maggiore non arrivassero le atlete del Club Italia! Bisogna dire che però negli anni Novanta la situazione era diversa da adesso: le ragazze con qualità fisiche e atletiche erano distribuite a macchia di leopardo tra molte società, dovevamo cercarle e strutturare la preparazione. Oggi i club fanno un lavoro diverso e sono almeno tre le squadre a livello giovanile che ogni anno si contendono il primo posto, come Volleyrò Casal de Pazzi e l’Imoco San Donà.

Coi ragazzi però il Club Italia si è fermato.
Il progetto è stato interrotto prima che arrivassi io, ma sono d’accordo. Il problema coi maschi è che sono pochi, meno delle ragazze, e togliergli alle società vuol dire creare un vuoto. Adesso facciamo un lavoro diverso, li facciamo allenare tutta l’estate. Ad esempio, dopo aver vinto l’Europeo a luglio, i nati nel 2006 e alcuni 2005 della prejuniores sono rimasti ad allenarsi fino all’inizio di settembre, sapendo che in questa stagione potrebbero trovare poco spazio nei campionati di categoria. In questo modo miglioriamo noi, ma anche le loro squadre.

Parla molto delle società. Quanto contano?
Sono determinanti e le vittorie delle nazionali sono anche merito loro. Noi non possiamo sapere dove nascerà il prossimo azzurro: abbiamo fatto una ricerca e abbiamo visto che negli ultimi quarant’anni il 90 per cento di azzurri aveva cominciato in piccole squadre per passare dopo alle giovanili di club più importanti. Va reso onore a quegli allenatori e quelle associazioni sportive. Dopo queste vittorie, bisognerebbe offrire loro almeno una bottiglia di vino.

Tra ori giovanili e Mondiale degli azzurri, potrebbe aprirsi un nuovo ciclo dopo anni di risultati deludenti?
Non riterrei deludenti l’argento delle Olimpiadi di Rio del 2016 e il bronzo a Londra nel 2012, non siamo mai usciti dai vertici. Certo, da un po’ non arrivavamo all’oro. Io ritengo sia difficile avviare un ciclo perché la pallavolo è molto cambiata. Ci sono stati i cicli dell’Urss prima, poi degli Usa, dell’Italia e del Brasile. Oggi molte squadre giocano per vincere: una può aggiudicarsi le Olimpiadi, un’altra i Mondiali… Questo dimostra una crescita nella pallavolo mondiale.

Allora i continui paragoni con la Generazione dei fenomeni, che negli anni Novanta vinse quasi tutto, sono errati?
Sono ingiusti. Cosa pretendiamo di fare? Un altro ciclo di dieci anni? Siamo un paese in cui si passa dal pessimismo, quello per cui diciamo “Succede soltanto in Italia!” senza sapere cosa accade nel mondo, ai trionfalismi, “Siamo i migliori”, senza vie di mezzo. Ai ragazzi dell’Under 20 prima della finale ho fatto un discorso: “Due cose devono andare sempre insieme: la convinzione e l’umiltà”. Prima di giocare bisogna essere convinti e dopo la vittoria umili e chiederci “Cosa avremmo dovuto fare se avessimo perso?”. Avremmo cercato i difetti, ci saremmo allenati meglio. Quando si vince, invece, si pensa di aver trovato il metodo, ma la vittoria dipende dall’avversario. Che nel frattempo, avrà già cominciato a prepararsi in modo più esigente e motivato.

Nell’Under 20 ha trovato Alessandro Bovolenta, figlio di un suo ex giocatore, Vigor, che lei ha allenato in nazionale e poi a Piacenza. Quale sensazione ha provato?
Ho sempre una sensazione particolare quando incontro i figli dei miei ex giocatori, e in particolare di Vigor, che è mancato (nel 2012, ndr). Ma vorrei che Alessandro fosse considerato in quanto Alessandro, non in quanto figlio di Vigor. Lui non sente il fastidio, ma non è giusto. È un effetto della macchina giornalistica. Tutti i giovani hanno bisogno di essere loro stessi, non i figli di. Noi adulti dovremmo ricordarci come eravamo da adolescenti e riflettere.

Dopo tutte queste medaglie, il modello di lavoro sui giovani della Federvolley può essere di ispirazione per le altre federazioni sportive?
Non voglio dire cosa devono fare le altre organizzazioni. Noi cerchiamo di imparare da tutti. Ad esempio, il rugby non vince, ma ha un grande seguito di tifosi e noi dobbiamo essere bravi a ricrearlo. Nel calcio un lavoro come il Club Italia è impossibile, però Roberto Mancini mi è piaciuto: quanto tutti dicevano che non c’erano giovani forti, lui è andato a prenderli e ha vinto l’Europeo.

Mancini è di Jesi, dove lei è arrivato nel 1983 ad allenare in Italia per la prima volta. Vi conoscete?
Sì, lo l’ho sentito dopo la vittoria dell’Europeo di calcio e quando poi ha mancato la qualificazione ai Mondiali dicendogli di continuare. Ha il merito di aver creduto quando altri dicevano che non era possibile. Lo stesso abbiamo fatto nella pallavolo quando dicevano che non c’erano i ragazzi. E lo stesso dicevano negli anni Ottanta, prima della “Generazione di fenomeni”: “Gli italiani non sono come i russi, non sono come gli statunitensi”. Ma anche quella parola, “fenomeni”, sembra voler dire che era soltanto un caso.

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