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Con la morte di Jean-Luc Godard è come se si fossero chiusi gli occhi del cinema

Con la morte di Jean-Luc Godard è come se si fossero chiusi gli occhi del cinema
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Con la morte di Jean-Luc Godard è come se si fossero chiusi gli occhi del cinema. A pochi giorni di distanza se ne sono andati due diversi simboli del Novecento, la regina Elisabetta d’Inghilterra e Jean-Luc Godard. Forse questa sovrapposizione impropria sarebbe piaciuta allo stesso Godard, creatore di grandi cortocircuiti di immagini e di pensiero grazie alle immagini e con(tro) le immagini.

Entrambi sono stati molto longevi, entrambi hanno segnato settant’anni. Ma lo hanno fatto in modo opposto: la regina ha incarnato un’istituzione statica, e questo a prescindere dal suo exploit con James Bond che le ha dato una patente pop. Godard ha costruito il cinema e il pensiero come luoghi di una contaminazione, e quindi di un movimento, perenni. Una ha fissato il Novecento in un’icona, l’altro lo ha sparato nel nuovo millennio, folgorando i paradossi, decostruendo continuamente le immagini e le immagini-idee che metteva in campo per produrne di nuove.

Prendiamo un esempio da Le livre d’image, ultimo film del quasi novantenne regista, realizzato nel 2018. Godard parte dall’idea cinematografica del remake per parlare delle guerre. Come nel remake anche le guerre si ripetono: ancora una volta il cinema serve a penetrare il mondo. Ma non basta: le guerre, dice Godard, sono espressione della volontà divina poiché è una legge del mondo che tutto ciò che vive sia destinato a essere distrutto. Come leggere contropelo la storia della guerra e della contemporaneità. D’altra parte il cinema ha questa funzione, etica ed estetica – e le due cose non possono mai andare disgiunte: non quella di mostrare ciò che c’è, che già conosciamo, ma quella di mostrare ciò che non c’è. Di qui l’apertura al digitale, inteso come linguaggio, un linguaggio elastico che non si limita a restituire un’immagine nitida nel suo splendore, un’immagine “senza ombra”, ma la stratifica, la rende frammentaria, rotta, forse cor-rotta.

Questa propensione al frammentario ha caratterizzato tutto l’itinerario intellettuale e cinematografico di Godard: dalla preferenza per il découpage rispetto al piano-sequenza osannato dal suo maestro André Bazin al gusto della citazione. Quanti libri, film, quadri, versi, filosofi, scritture sacre, ci sono nel cinema di Godard? Sarebbe vano, inutile, antigodardiano andare a caccia di tutto quello che c’è tra le pieghe del cinema. Vorrebbe dire tradirlo, inscatolarlo, de-finirlo.

Questa frammentazione tocca anche la costruzione delle storie: Vivre sa vie (Questa è la mia vita) è un film in dodici capitoli, le Histoire(s) du cinéma si compongono di otto parti. Si esce dalle Histoire(s) conoscendo la storia del cinema, ammesso che questa nozione abbia un senso? No, o forse sì. Si esce dalle Histoire(s) con un senso panico del cinema, dell’arte, dell’intreccio, inteso in tutti i sensi.

Il cinema si è illuso di controllare il mondo, con un atteggiamento quasi divino. Ma non può che associare l’uno e il molteplice, far coesistere il molteplice nell’uno. Il pensiero libero non può essere totale, non può essere totalitario. E’ questo, forse, il messaggio più politico che Jean-Luc Godard lascia a quest’epoca così (cor)rotta.

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