Premessa: ciò che segue ignora deliberatamente la grande politica tracciata dall’uomo che ha ridisegnato la mappa del mondo. Mikhail Gorbaciov (secondo il parere di molti storici contemporanei) è stato un riformatore eccezionale ma anche ostinatamente l’ultimo dei sovietici. Voleva una Unione Sovietica libera e democratica. Con la perestroijka (ossia ricostruzione) cercò di rivitalizzare la macchina arrugginita del socialismo reale, rianimare l’apparato incancrenito del Partito, salvare il sistema e non distruggerlo come invece avvenne. L’altra frontiera che superò fu quella della glasnost (trasparenza). Con la perestroijka, i due pilastri della filosofia politica di Gorbaciov, il sogno cioè di realizzare un socialismo dal volto umano e il rispetto della legge, come scrisse nelle sue Memorie: pensava che la società sovietica, una volta bene incardinata nelle riforme e nel rispetto della persona umana, avrebbe potuto progredire “seguendo tappe tattiche ben calcolate”.

Pereulok Petrovski numero 3, Teatro delle Nazioni di Mosca, 10 ottobre 2020. E’ la sera dell’anteprima di Gorbachev, biografia teatrale (in gergo bioplay) scritta, allestita e realizzata dal regista lettone Alvis Hermanis, un tempo persona non grata per la sua fiera posizione antisovietica. Ha avuto un visto speciale da Putin, dopo l’ok dell’Fsb, l’intelligence russa. La sala è zeppa, nonostante la pandemia. All’ingresso, due addetti controllano le temperature degli spettatori e si accertano che abbiano la mascherina. C’è anche l’anziano Mikhail Gorbaciov (allora 89enne), che ha collaborato con Hermanis, aiutandolo nel ricostruire alcune situazioni. Il regista ha sempre dichiarato che a lui interessava più la figura “umana” dell’ultimo leader sovietico, anzi, di lui e di sua moglie Raissa Maximovna, scomparsa nel 1999. Perché lo spettacolo, che dura quasi tre ore, è recitato solamente da due attori, i migliori della loro generazione: Yevgeny Mironov, 54 anni, direttore artistico del Teatro delle Nazioni dal 2006, e Chulpan Khamatova, che è impressionante tanto assomiglia a Raissa: “Lei ha aperto nuovi orizzonti alla sua generazione e ha mostrato al mondo che le donne russe possono essere colte e attraenti allo stesso modo”, tiene a sottolineare l’attrice quarantaseienne (fu bravissima interprete nel film Good bye Lenin!).

La trama è semplice. Nell’agosto del 1991, Gorbaciov con la sua famiglia rientra a Mosca, dopo aver subìto gli arresti domiciliari in Crimea e rischiato di essere liquidato per un tentato colpo di Stato orchestrato dal Kgb, che non riuscì a deporlo. La capitale russa accoglie il presidente con una grande manifestazione, ma lui invece corre in ospedale: Raissa, forse a causa dello stress per il blitz dei golpisti, è rimasta vittima di un ictus. Fortunatamente, non grave. E’ la scena cardine dello spettacolo. E’ pure una scena centrale della storia recente della Russia, per le sue implicazioni emotive. “Non ero sposato con il Paese, la Russia o l’Urss”, aveva scritto Gorbaciov nelle sue memoria, e questa frase è malinconicamente recitata da Mironov, “ero sposato con mia moglie e quella notte sono andato con lei in ospedale”. Il pubblico applaude, commosso.

“Forse è stata la decisione più cruciale della mia vita politica”. Ed è questa la chiave della bioplay di Hermanis. Riuscire a dare spessore e sostanza a una storia d’amore mettendola al centro di una vicenda – quella politica, quella che ha portato alla caduta del Muro di Berlino, all’emancipazione delle repubbliche ex-Urss, quella della crisi che ha condotto al tentativo di rovesciare Gorbaciov – per esaltare l’essere umano e non il grande demiurgo che sogna di riformare e di trasformare la società sovietica in una democrazia socialista libera, moderna e non repressa. Il Gorbaciov di Hermanis è una persona che privilegia i sentimenti e gli obblighi morali verso sua moglie ma anche verso gli amici e i cittadini di cui è responsabile perché deve provvedere al loro futuro, e non perché soggiogato da opportunismi politici.

Chiara è la critica al culto della personalità che aveva dominato gli anni di Stalin e dei suoi successori, compreso Putin: gli autocrati proteggono la loro immagine e la loro vita personale, celandola. Gorbaciov fece il contrario. Il regista-autore privilegia questa scelta anticonformista. Bypassa l’opinione pubblica russa spezzata in due: da un lato, coloro che ritengono Gorbaciov una sorta di liberatore e innovatore, dall’altro chi lo disprezza perché ha lasciato andare a pezzi l’Unione Sovietica, macellandone lo status di superpotenza. E’ la terza via. Utopica, però: perché Hermanis si sforza di dimostrare come le questioni politiche possano apparire secondarie di fronte a un vero amore, in questo inserendosi nel solco della tradizione dei classici russi. L’amore prima e più degli eventi storici. Il che è bello per un film romantico di Hollywood, non per la realtà, tantomeno per il realismo sovietico e post-sovietico. Hermanis forza la storia, col consenso di Gorbaciov, che la storia, quella vera, l’ha scritta, ma chissà come ha deciso di riscriverla con questo tocco psicologico molto russo. I due attori, formidabili, riescono nell’impresa di condurre lo spettacolo in un’atmosfera atemporale, struggente, palpitante.

La regia è assai abile. Tutto si svolge in un camerino con due postazioni per il trucco e due specchi. Attorno, l’appendicostumi, parrucche, un grande cartello campeggia sulla porta: “Silenzio! Spettacolo in corso!”. I due interpreti indossano abiti normali: felpa con cappuccio, jeans, una camicetta nera…via via, cambiano abiti e aspetto, invecchiando grazie al trucco. E’ lo spettacolo nello spettacolo, giacché i due attori leggono le battute, le commentano, cercano di discutere su come impersonare Gorby e Raissa. Poco per volta, entrano dentro i loro ruoli, persino nei loro accenti, la pronuncia cosacca meridionale di Mikhail, con vocali allungate, quella acuta (quasi un cinguettìo) di Raissa, nata nel territorio degli Altai, poi vissuta da ragazzina negli Urali, infine studentessa felice ed entusiasta di filosofia a Mosca, in una Urss dove l’unica scuola filosofica accettata era quella del marxismo.

Ma poi non è così vero che lo spettacolo eviti di affrontare lo scabroso passato dell’Urss. I due attori, infatti, leggono e raccontano, senza interruzioni, lentamente ma chiaramente, le loro vite. Le purghe di Stalin. La guerra “patriottica” contro la Germania. Il loro incontro all’università. L’ascesa di Gorbaciov che oscuro ma brillante dirigente provinciale scala la nomenklatura del partito e si impone al suo vertice.

Quando Gorbaciov diventa capo dell’Urss, basta un forte rumore di fondo e la voce di Raissa dal palco: “Era solo una giornata lavorativa di sei anni”. Infine, Gorbaciov resta solo. Lui ha 90 anni. Mironov indossa una maschera che gli copre tutta la testa, con la celebre voglia di vino (Porto, secondo il vezzo gorbacioviano) in bella mostra. Gorbaciov piange la morte di Raissa, uccisa dalla leucemia. Ripete le sue ultime parole: “Ti ricordi se abbiamo restituito le scarpe bianche che abbiamo preso in prestito da Nina per il nostro matrimonio?”

Ovviamente l’allestimento teatrale ha destato interesse e i biglietti sono andati a ruba (toccando 250 dollari). Sono fioccate le interviste agli interpreti e ad Hermanis che ha confessato di considerare Gorbaciov la terza persona più importante e determinante della sua vita, dopo la madre e il padre. La Khamatova ne enfatizza il ruolo positivo che ha avuto per i giovani, ai quali ha dato speranza: “Per una vita diversa, con la libertà di parola e l’orientamento sessuale”. Mironov ha grande riconoscenza, poiché Gorbaciov ha concesso la libertà artistica proprio quando alla fine degli anni Ottanta stava iniziando la sua carriera teatrale: “Dopo essere entrato nella pelle di Gorbaciov, mi sono reso conto che non era un politico. Ecco perché ha fatto quello che ha fatto, si è comportato da essere umano”.

Il sigillo, o meglio, il placet Gorbaciov lo ha concesso complimentandosi con gli attori e il regista. Mironov gli ha detto d’essere sorpreso perché non ha voluto modificare una sola battuta.
“Questa è la libertà”, gli ha risposto l’ultimo capo dell’Urss, “abituati”.

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