Sono in tanti, troppi, coloro che non hanno la facoltà di viaggiare dove e come vogliono. Per alcuni tutto sembra facile e scontato, anche nella scelta del mezzo di trasporto. C’è chi non parte mai e vive, per anni, di attesa e di tentativi di conversione delle frontiere. Queste ultime sono di carta, eppure si trasformano in muri che obbligano alcuni ad attendere anni prima di poter andare dove l’altro è già arrivato. Di muri si circonda la terra dei ricchi perché diventasse col tempo di proprietà privata. Proprio come la storia.

Per me, privilegiato viaggiatore, c’è stata la scelta della compagnia di bandiera per il transito da una parte all’altra del mondo. Ciò ha implicato l’adesione alla data di partenza e le formalità per la preparazione del viaggio. Il controllo dei documenti e delle procedure mediche ancora in atto hanno permesso il passaggio alla frontiera di ingresso all’aeroporto. Nulla di più semplice, una volta capito il meccanismo ormai rodato e normalizzato ovunque: biglietto, passaporto e sportello danno l’accesso all’aereo, solo e pronto in pista.

Dall’alto il conosciuto paesaggio nigerino, la parte del Sahel che porta a Djiamena, la capitale del Ciad, e l’arrivo, molto più tardi, ormai notte, ad Addis Abeba, nel cuore dell’Etiopia. Nelle ore di attesa dell’altro aereo si vive lo spazio di quello che l’antropologo Marc Augé aveva ingiustamente definito un “non-luogo”. C’è invece vita e un variegato mondo che ci passa accanto, transita, mangia, legge, scruta gli schermi dei sofisticati cellulari che viaggiano più lontano e più in fretta dell’aereo. Difficile capire gli annunci dei voli.

Per la prima volta e per scelta in un Paese colonizzato dal Paese di origine, domandandomi come tutto ciò era mai stato possibile: a migliaia di chilometri di distanza imporre la peggiore delle sofferenze all’altro cancellandone l’umana identità e riprodurlo secondo l’immagine che di lui si è costruita col tempo, i pregiudizi e gli interessi. Ho voluto passare da questo Paese così ricco di volti e di storia, come per assumerne parte del passato coloniale e sentire nella mia carne il dolore delle ferite perpetrate dai muri.

In aereo, della compagnia di bandiera dell’Etiopia, eravamo serviti dalle discendenti di coloro che avevano assistito a massacri perpetrati da connazionali. Poi, dopo la lunga frontiera di sabbia del deserto, il Mediterraneo e le innumerevoli luci che, di notte, disegnano le coste dei Paesi limitrofi, l’atterraggio a Roma e l’attesa per chiudere a Milano Malpensa. Accanto al sedile c’è un signore malgascio con la famiglia in transito per la Francia. Tre anni dopo sbarco nell’italica terra: l’uscita privilegiata per i nazionali, i controlli dell’identità con il riconoscimento facciale e l’attesa della valigia. La lingua che si usa torna ad essere familiare e così, in apparenza, il mondo fuori la frontiera di carta dell’aeroporto.

Appena fuori della porta numero 8 dell’aeroporto affiora la nostalgia per la frontiera di sabbia lasciata poche ore prima a Niamey così piena di umanità. E bussa d’improvviso e con pudore il sentimento di un fugace e leggero tradimento.

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