Cultura

Arte Nft | Ecco perché il ministero della Cultura ha bloccato i musei che vogliono trasformare i capolavori italiani in digitale

L'arte (e soprattutto i suoi mercati) vanno sempre più pazzi per il digitale, ma la questione apre il problema della tutela dei diritti. Così le autorità hanno chiesto a musei e siti archeologici di astenersi dal firmare contratti

di Marco Ferri

Il mondo dell’arte guarda con sempre maggior interesse agli Nft (Non Fungible Tokens), cioè alle opere d’arte digitali. L’importanza della nuova frontiera è stata verificata anche durante l’ultima edizione di Art Basel, tra le fiere d’arte più attese da gallerie e collezionisti, dove si ritrovano galleristi e collezionisti che in qualche caso danno vita ad affari milionari. Proprio ad Art Basel a metà dello scorso mese di giugno l’artista e performer Marina Abramović ha presentato il suo primo progetto Nft chiamato The Hero, mentre tre giorni dopo, anche il noto artista Jeff Koons alla fiera svizzera ha fatto il suo esordio nel Web3 presentando una serie di sculture accompagnate ognuna dal proprio Nft.

Senza contare che anche la Biennale d’arte di Venezia quest’anno guarda decisamente al digitale: nel Padiglione del Camerun 30 artisti stanno dando vita a un laboratorio dinamico che solo a fine mostra (27 novembre) permetterà di ammirare le opere Nft previste nel progetto iniziale, le quali saranno poi messe in vendita; sempre a Venezia ha preso forma Meta Vanity, il primo museo nel Metaverso che, in uno spazio che richiama il Pantheon di Roma e grazie al download di una speciale applicazione, promette di far vivere al visitatore un’esperienza totalmente immersiva, presto supportata anche da Oculus, il visore rivoluzionario che permette un coinvolgimento emozionante. In questo particolare museo si possono ammirare opere di una ventina di artisti tra i più importanti e conosciuti della scena artistica digitale e crypto internazionale, da Skygolpe a Jesse Draxler, da Luna Ikuta e Quasimondo, fino a Emanuele Dascanio.

Il Tondo Doni di Michelangelo

Insomma che l’arte digitale sia in fermento ormai non è più una novità, ma c’è chi fa molta fatica ad adeguarsi. Soprattutto se in ballo ci sono capolavori dell’arte classica italiana. Infatti ancora non è ben chiaro per tutti se la “traduzione” digitale per esempio di un dipinto su tela o su tavola sia una copia, un replica o un nuovo originale, con tutto quel che ne consegue a livello di mercato, anche in relazione ai diritti che l’immagine genera. Non a caso infatti il governo italiano ha deciso di fermare la vendita di copie digitali di capolavori di artisti come Leonardo e Michelangelo custoditi nei musei più famosi d’Italia. La decisione è giunta dopo che la vendita di un facsimile digitale basato sul Tondo Doni di Michelangelo (1505-06) ha incassato 240mila euro l’anno scorso, portando 70mila euro nelle casse della Galleria degli Uffizi di Firenze.

La versione Nft dell’unica pittura certa di Michelangelo è stata realizzata dall’azienda milanese Cinello nell’ambito di un accordo quinquennale. Se pur chiari, i termini del contratto tuttavia destavano preoccupazioni, soprattutto i 100mila euro necessari per i “costi di produzione”. Il contratto con Cinello prevedeva infatti che il reddito ricavato dalla riproduzione dell’immagine venisse diviso a metà tra l’azienda e il museo; la copia di Cinello ha guadagnato circa 140mila euro, quindi agli Uffizi sono andati 70mila euro.

Questa situazione ha fatto emergere un altro problema: la proprietà del Tondo Doni di chi è? O meglio: chi detiene i diritti legali all’opera? E se il compratore decide di esporla, può farlo senza il placet degli Uffizi? Ecco il vero problema: nel momento in cui ci stiamo avvicinando al metaverso non rischiamo di perdere il controllo dei picchi d’eccellenza artistica della nostra civiltà?

Secondo Cinello non vi sono problemi perché – come si legge su The Art Newspaper – “tutti i diritti sull’opera rimangono al museo che possiede l’immagine originale. Creiamo una nuova [immagine] legata al nostro brevetto, che è la Daw. Il collezionista che acquista la Daw non può esporla in mostre pubbliche come da contratto; l’opera è solo per uso privato. Le Daw sono create proprio per mantenere il controllo, che rimane nelle mani di Cinello e dei musei partner, e non per disperdere il patrimonio [italiano] nel mondo digitale”.

Nonostante la dichiarazione dei vertici di Cinello, e la presa di posizione degli Uffizi – dove si afferma che “il museo non ha venduto nulla ma ha concesso l’uso dell’immagine: la vendita dell’opera digitale è tutta merito di Cinello. È falso dire che il museo ha venduto la copia di Tondo” – il progetto di trasformazione dei capolavori in opere digitali è destinato a fermarsi.

A dirlo è lo stesso direttore generale dei musei statali Massimo Osanna il quale fa sapere che, considerata la complessità della materia, per altro non regolamentata, “il ministero ha chiesto temporaneamente alle sue istituzioni (musei e siti archeologici, nda) di astenersi dal firmare contratti relativi alle Nft. L’intenzione di base è quella di evitare contratti abusivi”, inoltre pare che a breve saranno emanate delle linee guida che le varie istituzioni museali dovranno seguire in questa materia. Che rimane estremamente spinosa.

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