A quattro anni Amin aveva vissuto più di me a 50 anni e conosceva i nomi di tutte le armi che hanno sterminato quasi tutta la sua famiglia. È arrivato in Etiopia partendo da Addis Abeba, dopo una marcia di 450 chilometri a piedi sulle spalle del nonno e da lì la mamma e la zia sono riusciti a portarlo in Italia. Un paese dove non ci sono le armi, gli avevano promesso. Arrivato a Fiumicino ha visto un carabiniere in divisa e da lì ha iniziato a gridare che lui in Italia non ci voleva stare perché lo avevano ingannato: anche in Italia le armi c’erano c’erano eccome. Oggi Amin è attivista, attore e regista, e grazie al suo impegno il David di Donatello ha cambiato il regolamento (solo della sezione cortometraggi) accettando anche contributi di cittadini non italiani. Pur avendo frequentato tutte le scuole in Italia, Amin era un profugo e quindi non poteva chiedere la cittadinanza italiana in quella strettissima finestra che va dai 18 ai 19 anni e da allora è diventato uno straniero nella sua terra. Oggi a 34 anni è ancora con il permesso di soggiorno, e passati dieci anni potrà finalmente ricevere la cittadinanza italiana.

La storia di Amin è quasi a lieto fine. Non come quella di Sonny Oulmati, ballerino e coreografiche invece in Italia ci è persino nato ma ha avuto una “colpa” grave di cui è “responsabile” in prima persona. Infatti, quando aveva quattro mesi i suoi genitori nigeriani si sono separati e lui è stato sbalzato tra case famiglie e affidi vari, finché a sette anni si è finalmente ricongiunto con la madre. A causa di questa situazione, a 18 anni non ha potuto provare di essere stato sempre residente in Italia e quindi la sua richiesta di cittadinanza è stata rifiutata. Ora, a 37 anni ha un permesso di soggiorno solo fino al prossimo dicembre e speriamo che gli possa essere rinnovato. La cosa che mi ha più colpito di Sonny quando lo ho incontrato a Montecitorio è che nonostante tutto quello che ha passato non ha mai smesso di sorridere, nemmeno per un secondo.

Il record per la storia surreale lo detiene però Luca Neves, uno chef italiano nato a Roma, che ha fatto tutte le scuole a Roma, che parla romano ma che per aver ritardato di soli due giorni la richiesta di cittadinanza, cioè due giorni oltre il suo diciannovesimo compleanno, si è ritrovato sbattuto in un girone infernale, detenuto due volte in un centro di identificazione pronto per essere espulso verso un paese, Capoverde, dove lui non aveva mai vissuto. Un inferno che ha coinvolto anche i suoi familiari, quando il suo papà, che ha avuto 4 infarti, tre ictus, due stent al cuore e l’amputazione di una gamba è dovuto andare dal giudice di pace in piena estate per testimoniare riguardo alla vita di Luca in Italia. Della storia di Luca si era occupato The Guardian e ne abbiamo parlato anche qui su queste pagine.

La novità è che finalmente Luca nelle scorse settimane ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno dalla questura e quindi a 33 anni finalmente esiste anche per lo stato italiano, nel senso che può avere un contratto di lavoro e prenotare una visita medica.

Mentre raccontavo le loro storie, questi ragazzi erano in tribuna con le loro compagne, nell’aula di Montecitorio, e ascoltavano le surreali proposte della Lega, come queste, per le quali si proponevano test sulle sagre e sui prodotti tipici enogastronomici come requisito per la cittadinanza italiana. Ascoltavano in silenzio, perché il regolamento della Camera prevede che il pubblico possa assistere, ma deve astenersi da qualsiasi cenno di approvazione e disapprovazione, fosse anche un cenno con il capo. Voglio credere che quel silenzio sia costato tanto a loro.

E aggiungo che la loro presenza è stata possibile solo grazie alla grande sensibilità dei funzionari della Camera, perché un’applicazione rigorosa dei controlli prevederebbe che chi ha il permesso di soggiorno e passaporto non Schengen non potrebbe nemmeno assistere dalla tribuna. Nemmeno alla discussione della “sua” legge, quella che permetterebbe a tanti ragazzi e ragazze che sono italiani perché nati e vissuti qui di ottenere la cittadinanza italiana con il requisito della frequenza di un certo numero di anni di scuola (al momento cinque). Questi ragazzi sono solo la punta dell’iceberg, quelli che ci “hanno messo la faccia” per una causa giusta.

Questa legge, lo Ius Scholae, non cambierà nulla per la loro situazione personale, perché non si applica al passato (nella versione attuale). Cambierà però tanto per il loro e nostro Paese, cioè l’Italia, perché riconosce perché riconosce qualcosa che c’è già nei fatti, ovvero la cittadinanza italiana per chi ha frequentato il luogo principale dell’inclusione, cioè la scuola. Approvare questa legge passerà attraverso un percorso parlamentare, che è bene dirlo chiaramente, sarà difficile e complesso per l’opposizione ideologica di forze parlamentari come la Lega e Fratelli D’Italia, che hanno fatto un ostruzionismo serrato. Avvicinandosi le elezioni non possono permettersi di dire al loro elettorato che dare diritti a qualcuno non ne toglie agli altri italiani. Si parla di “rischio baby gang di immigrati”, ma invece il rischio reale è che se non facciamo sentire italiani questi ragazzi qualcuno li farà sentire qualcosa altro.

Il mio grande desiderio è che tutte le forze moderate possano finalmente dare al nostro Paese un legge di civiltà come questa, affinché questa tormentata diciottesima legislatura possa terminare non tra spartizioni di poltrone e leggi mancetta pre-elettorali, ma permettendo a noi parlamentari di uscire a testa alta dal portone sulla Piazza tra qualche mese. E poter riconoscere i diritti fondamentali a centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze sarebbe quello che più di tutti ci renderebbe fieri di aver servito il nostro Paese. Con disciplina e onore.

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