Televisione

Angelo Guglielmi, è morto uno dei papà della tv: rivoluzionario, ha portato su RaiTre tanti programmi che amiamo

Eccolo lo scheletro del guglielmismo. Altro che popular chic, che poi subito arriverà. Il punto è proprio ribaltare l’assunto “meno televisione c’è, meglio è. E quel poco che c’è deve servire a curare l’anima degli italiani”. Una trasformazione che guarda caso portano i compagni del “bottegone”. Comunisti o non comunisti, una larga fetta d’Italia sbircia su Rai3 il tg “tele Kabul” dell’ortodosso Sandro Curzi, poi se la ridacchia con Dandini, Guzzanti&Co

di Davide Turrini

Blob, Telefono Giallo, Il portalettere, Chi l’ha visto?, Avanzi, Storie maledette, Samarcanda, Un giorno in pretura, Quelli che il calcio. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. La rivoluzione televisiva di Rai3 firmata dal suo direttore Angelo Guglielmi è un po’ come il big bang del Biscione o addirittura del primo annuncio di Nicoletta Orsomando nel 1953. La storia di quella fortunata stagione di trasformazione della tv pubblica e della tv tutta, la raccontano proprio Guglielmi e Stefano Balassone, il vice di Guglielmi, nel libro Senza rete (Bompiani): “Nel marzo 1987. Biagio Agnes (direttore generale Rai ndr) ed Enrico Manca (presidente Rai ndr), in un ristorante romano, incontrano Veltroni e «regalano» la Terza rete al Pci (…) Forse, è interessante conoscerne le ragioni; intanto se lo potevano permettere perché erano i padroni della Rai; e poi la situazione politica (brutalmente: i rapporti fra i partiti della maggioranza) lo rendeva quasi necessario. Infine, la stessa tv, fino allora maestrina dalla penna rossa dell’Italia intera, comincia a scoprirsi industria e sente il bisogno di coinvolgere anche altre forze e energie, fino allora inutilizzate”. Già, la politica della prima repubblica che partorisce la gemma preziosa in un contesto industriale. Del resto se con il craxismo nel 1975 il regalo era stato, chiavi in mano a Craxi, la rete 2, difficile che tutto l’armamentario creativo e politico che nel 1987 esploderà su Rai3 si potesse tenere a bada, chissà magari finendo a fondare terzi e quarti poli tv. Guglielmi&Co. occhieggiano Grillo (che dirà di no) e Celentano (quello di Fantastico), ma poi dopo aver ristrutturato tutta la piramide decisionale della rete 3 (citiamo i più noti: il capo struttura Bruno Voglino, Enrico Ghezzi, ma anche lo studio di architetti Gregotti&Associati) iniziano a stendere sul tavolo i loro giochi che diventeranno nel giro di un paio d’anni concorrenziali in fatto di share, ascolti, investimenti pubblicitari (il famoso 1% di Rai3 superato dalle tv locali che si decuplica). Intanto per dare uno scossone che oggi presi delle dispute epocali pandemico guerrafondaie definiremmo dei “gombloddi”, ecco il ciclo Chiama in diretta RaiTre. Il contatto diretto con il pubblico. Prendi su la cornetta che la tv ti risponde. E dove lo fanno? Nell’ambito dei misteri d’Italia, dei casi politici e di cronaca controversi, nel calderone delle verità non dette (oggi, appunto, il serissimo progressismo al potere bolla tutto come complotto). Nascono prima Linea Rovente con Giuliano Ferrara pre Foglio a scuotere le folle a casa, poi ecco Telefono Giallo che diventa una sorta di brivido alla Dario Argento sui delitti e le stragi (Ustica in primis), e infine il totem Chi l’ha visto?. Eccolo lo scheletro del guglielmismo. Altro che popular chic, che poi subito arriverà. Il punto è proprio ribaltare l’assunto “meno televisione c’è, meglio è. E quel poco che c’è deve servire a curare l’anima degli italiani”. Una trasformazione che guarda caso portano i compagni del “bottegone”. Comunisti o non comunisti, una larga fetta d’Italia sbircia su Rai3 il tg “tele Kabul” dell’ortodosso Sandro Curzi, poi se la ridacchia con Dandini, Guzzanti&Co, girella sorniona e dissacrante attorno ai palazzi del potere con il folletto Piero Chiambretti a consegnare letterine ai politici (un must: quella consegnata Cossiga), affonda la punta del fioretto con “la cartolina” di Andrea Barbato o si perde nella detestabile tv tutt’attorno montata e rimontata nel Blob quotidiano di Ghezzi e Giusti. Una sorta di invenzione semiotica di una fetta di palinsesto, quella tra le 19 (col tg) e le 20.30 (quando parte la prima serata) ricomposta per chi non ha più voglia di seguire l’Almanacco del giorno dopo sull’1. Insomma, più che una tv verità, un vero e proprio caleidoscopio dei sensi che sorprende, che stuzzica, che crea affezione, che porta anche e soprattutto ad una tenuta in termini di investimenti pubblicitari, e che infine disegna un contenitore tv ad un’area politica vasta di sinistra o progressista, o anche solo “alternativa” al pensiero dominante del monopolio pentapartitico governativo che c’era. Una roba sensazionale che oggi in mezzo alla palude tutta identica e politicamente corretta delle prime serate nella tv pubblica e privata non riusciremo mai a far capire soprattutto alle giovani generazioni. Pensate a Samarcanda di Santoro, a Profondo Nord di Lerner. Improvvisamente la disgregazione del sistema dei partiti della prima repubblica mostra le sue lastre, le sue tac, le sue risonanze magnetiche nei prototipi dei talk fanfaroni ed eterodiretti degli anni duemila. E ancora, per chi scrive, quel Và pensiero, programma dimenticato ma mastodontico, firmato Barbato e Beha, con il mondo ingessato della cultura e della politica che si scioglie in un salotto formale ma non troppo della domenica pomeriggio (addavenì ancora Fazio e suor Paola) con Oliviero Beha che sbircia le partite di Serie A in bassa frequenza (ehehehe Sky e Dazn nemmeno erano ancora state concepite) con una sigla sulle note di Verdi cantate da Morandi, Proietti, Zucchero, Tina Anselmi e Carla Fracci, Montesano e la Gruber (!), la Carrà e il trio Solenghi-Marchesin-Lopez. Insomma, in quella presunta nicchia culturale fortemente voluta dall’ex critico e scrittore del Gruppo 63 si mescola la ricerca con il nazional popolare. Insomma, le basi antropologiche e provocatorie della tv che poi verrà. “Il risultato è l’uomo di oggi, che alcuni dicono migliore di ieri, altri no”, scrivono sempre nel libro Senza Rete (Bompiani), Guglielmi e Balassone, quando siamo nei primi anni duemila. Del resto anche quando le cose belle finiscono (la sua Rai3 dura dall’87 al ’94, il tempo della discesa in campo berlusconiana) rimane comunque l’uomo Guglielmi, con quel suo piglio deciso e decisivo, personalità strabordante, conoscenza enciclopedica, gusto e sfizio letterario come pochi. Quando Guglielmi accetterà, tra l’altro, di diventare assessore alla Cultura nella giunta Cofferati (2004-2009), quella della rivincita sullo sfregio politico del civico Guazzaloca, ecco che Guglielmi innesta il turbo con la sua intraprendenza inarrestabile creando scossoni e cortocircuiti culturali nella città dove tutti i posti sono sempre assegnati in anticipo e il copione è pronto da secoli. Eccolo l’indomito Guglielmi, rifare una piccola rai3 a Palazzo d’Accursio, rintanato nel cantuccio di un ufficio regale che dà sul Nettuno, con un tavolo otto metri per tre straboccante di libri nuovi (“molti ancora da leggere”) e la pazza idea di un festival di cinema che dialoga con la letteratura, Le parole dello schermo. I malumori dei ras locali della cultura non tardarono a pervenire ai piani alti del partitone. Così l’esperimento curioso, caloroso, inesausto (all’appello rispose l’universo mondo cine letterario italiano, e non solo) finì nel nulla. E se in tv la Rai3 di Guglielmi ebbe fieri oppositori i potenti della prima repubblica, a Bologna gli si opposero quelli che nella celebre conventio ad excludendum erano stato esclusi a livello nazionale, ma che lì erano al potere da decenni.

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