Per una delle strane coincidenze della storia che spesso si verificano, in questo periodo il Parlamento sta esaminando due interventi molto importanti in tema di remunerazione dell’attività lavorativa. Il primo provvedimento in discussione riguarda la possibilità di introdurre anche in Italia il salario minimo, una soglia al di sotto della quale l’impresa non potrebbe scendere. Su questo punto la discussione è molto aperta, soprattutto per le riserve dei sindacati. Molto meno accesa invece è la discussione sulla normativa che riguarda la fissazione degli onorari dei professionisti di alto livello, provvedimento chiesto a gran voce dalle categorie interessate. Questo provvedimento sta per essere approvato con un’ampia maggioranza. Per qualche misteriosa ragione retorica, la determinazione delle parcelle dei professionisti non passa sotto la definizione di compenso minimo, ma sotto quella più nobile di equo compenso.

Per quale motivo un lavoratore nei servizi, diciamo un addetto al servizio di portineria, dovrebbe aver diritto ad un salario minimo (cioè al di sopra dei 5,5 euro tabellari), mentre il professionista, che si ipotizza si trovi in una condizione ben più confortevole, dovrebbe ricevere un compenso equo, e non un compenso minimo? Da cosa deriva questo doppio binario che francamente urta la logica economica, oltre che il generale principio di equità? La spiegazione sta semplicemente nell’attività di lobbying dei poteri forti, qui rappresentati dalle oligarchie professionali. Forse pochi ricordano la mitica lenzuola dell’allora ministro dello Sviluppo Economico Pier Lugi Bersani. Siamo nel lontano 1996 e venne approvata una legge che introdusse una prima limitazione al potere monopolistico di intere categorie economiche.

Sotto la scure del liberista Bersani caddero anche le tariffe professionali che vennero abolite, con grande strepito da parte degli interessati e grandi benefici per i cittadini consumatori. È chiaro infatti che le tariffe professionali garantiscono una rendita di monopolio che, soprattutto nell’epoca di Internet dove tutto è facilmente replicabile, è diventata ancora più ingiustificabile. Ma queste, pur colpite al cuore, hanno cominciato una intensa attività di lobbying per ritornare alla situazione di privilegio economico garantito dallo Stato. L’idea è che il compenso del professionista non dovrebbe essere il premio per la sua produttività, come per tutti i lavoratori, ma dovrebbe anche salvaguardare il suo decoro e la sua dignità. In termini economici, una pura rendita di posizione garantita dallo Stato.

Poiché non è possibile ripristinare le tariffe tradizionali, con il provvedimento in questione, il cosiddetto equo compenso riguarderà solo alcuni casi, tra i quali i rapporti con la pubblica amministrazione. Ma probabilmente è solo il primo passo. Tra l’altro, saranno le stesse categorie economiche a determinare la sfuggente nozione di equità delle loro parcelle. In Parlamento, ad essere entusiasti sono soprattutto gli esponenti di centrodestra, sempre pronti a sostenere le ragioni dei più forti, in barba ad ogni principio liberale e liberista che dovrebbe essere nel loro Dna. Se i grandi studi professionali hanno portato a casa, complice il Parlamento, una buona fetta di reddito, il lavoratore e la lavoratrice dei servizi, e i precari in generale, devono invece aspettare.

Il Parlamento infatti è molto diviso sulla questione del salario minimo. Il problema nasce dal fatto che in molti settori dei servizi, controllati per lo più da cooperative, sono in vigore contratti predatori che prevedono minimi salariali indecenti con retribuzioni lorde sotto i 5-6 euro. Di fonte ad una situazione così scandalosa, correttamente il Parlamento, sollecitato soprattutto dai pentastellati, si è proposto di intervenire. Tanto per avere un’idea del fenomeno, portare il salario lordo a 8 euro inciderebbe sul salario di 1,2 milioni di occupati, cioè il 10% dei lavoratori. La spesa complessiva per i datori di lavoro sarebbe di 2,7 miliardi di euro, una somma non molto elevata in definitiva. Se guardiamo poi fuori casa, il salario minimo è stato introdotto in Germania nel 2015. Allora valeva 8,5 euro, oggi il governo tedesco l’ha portato a 12 euro.

Purtroppo in Italia abbiamo un Parlamento che è disposto a riconoscere una cospicua posizione di rendita alle ricche professioni blasonate, mentre non è in grado di trovare un accordo per aumentare dei salari a livelli decenti. Stavolta è il centrodestra, Meloni e Salvini in testa, a guidare le ostilità nei confronti della proposta sul salario minimo, con il consueto appoggio di Confindustria. Il centrodestra in Italia, come di consueto nelle materie economiche, dal fisco e fino alle liberalizzazioni sempre osteggiate, è debole con i forti e forte con i deboli. Più che dalla parte del popolo, lo troviamo sempre dalle parti del portafoglio. Poiché le tendenze economiche di lungo periodo vanno al di là dei meri interessi elettorali contingenti, è probabile che vedremo, speriamo abbastanza presto, una legge sul salario minimo che tuteli le fasce economicamente più deboli dei lavoratori. Questo sì sarebbe un provvedimento che porterebbe ad un equo compenso, per tutti e non solo per i ricchi studi professionali che hanno sede a Roma o a Milano.

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