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Ultimo aggiornamento: 16:46 del 6 Luglio 2022

“Un mare di sangue nell’androne, i corpi accatastati, il mio amico ucciso: le mie ore di terrore coi russi”. Il 19enne Dmitry torna nel rifugio di Bucha

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In 180 nascosti come topi dentro il sotterraneo di un palazzo diventato poi il quartier generale dei russi durante l’occupazione di Bucha. Prima il nascondiglio dove si sono rintanati per cinque giorni, poi, una volta scoperti dall’esercito occupante i civili impauriti sono rimasti loro ostaggio. A raccontare a ilfattoquotidiano.it in un video quell’incubo atroce è Dmitry Hvozdytskyi, 19 anni.

Per la prima volta torna nel luogo dell’orrore. Uno scantinato angusto e umido, ridotto in pessime condizioni, con un solo bagno non funzionante e l’angoscia di una fine incerta. Il racconto di Dmitry parte dal punto dove il ragazzo ha dormito a terra per dieci giorni: “Eravamo in tanti, c’erano uomini, donne, anziani, giovani come me, bambini, un paio aveva pochi giorni di vita e poi cani e gatti. Dovevamo stringerci perché lo spazio come vedete non è enorme ed è pieno di cianfrusaglie. Per i neonati è stato creato un letto di fortuna sopra una tavola di legno con dei cuscini, gli altri dormivano come capitava. Dopo così tanti giorni qui dentro mancava l’aria, siamo dieci metri sotto terra, la gente aveva paura e non voleva uscire, ma rischiavamo di morire come topi qui sotto. Senza cibo dal terzo giorno quando anche i biscotti sono finiti e alla fine anche senz’acqua, razionata in piccole dosi per soddisfare tutti, bambini e anziani in primis, raccolta da un boiler dell’impianto centrale, cattiva, non potabile e di un colore misto tra giallo e verde. L‘unico bagno era rotto”.

Il gruppo di civili si era chiuso nello scantinato, dove si trovano i servizi delle utenze, sigillati da una porta blindata stile caveau di una banca e una seconda ai piedi delle scale. I russi hanno scardinato la prima: “Abbiamo aperto noi la seconda porta – racconta il 19enne – quando i russi ormai ci avevano scoperto. Non avremmo comunque potuto resistere molto a lungo e temevamo volessero far saltare tutto con l’esplosivo. Siamo passati dalla padella alla brace. I russi erano violenti e ci hanno tenuti lì dentro per altri cinque giorni senza fornirci acqua potabile e cibo. Inoltre hanno iniziato a controllare i documenti di tutti e soprattutto i cellulari per capire chi avesse a che fare con l’esercito ucraino o chi aveva immagini o video del conflitto o di propaganda anti-russa. A me è andata bene, ma a tanti altri no, compreso un mio amico, portato di sopra e ucciso”.

Più di 100 ore di ulteriore ansia per la loro sorte, poi il quinto giorno il grosso degli ostaggi è stato liberato: “I russi si erano stancati di noi, di saperci lì sotto, così ci hanno detto e così siamo stati liberati – conclude Dmitry, fuggito a Zhitomyr e poi rientrato a Bucha soltanto due mesi dopo, a maggio -. Quando ci hanno portato dallo scantinato all’aria aperta ho temuto un’esecuzione di massa, invece ci hanno solo detto di andarcene in fretta dalla città. All’interno dell’androne di ingresso ricordo però un mare di sangue e i corpi accatastati di tanti miei concittadini. Gli occhi hanno registrato quell’immagine terribile per pochi secondi, un’immagine che resterà sempre dentro di me”.

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