Sono passate tre settimane dal mio ritorno sulla terra, ma sembra sempre oggi. Questione di una realtà che ha trasceso le già potenti aspirazioni di partenza. Emozioni destinate a perpetuarsi all’infinito, riscaldando gli inverni che verranno.

La dimensione che mi era più mancata negli ultimi due anni era stata quella del concerto pop-rock di massa. C’ero già stato nel 2016, ai tempi di Radiohead, LCD Soundsystem e P.J. Harvey per dirne tre. Nei sei anni successivi non ho fatto che ripensare a quei giorni favolosi. E così, qualche mese fa, ho deciso: torno al Primavera Sound di Barcellona. Il più grande festival musicale europeo. Che per giunta re-inaugurava la stagione delle mega-kermesse live. La ventesima edizione, a lungo procrastinata per i noti motivi. Pure stavolta il cast sarebbe stato formidabile, ai confini della bulimia. Due weekend, più un prolungamento infrasettimanale con spettacoli di peso nel cuore della capitale catalana.

Scelgo il primo weekend. Prenoto il volo. Arrivo nella città di Gaudì il mercoledì mattina. Rientro la domenica. Vado solo, come l’altra volta. Qualcosa di profanamente sacro. I prezzi di alberghi e b&b erano, nel frattempo, schizzati alle stelle? Nessun problema: dormirò, se necessario, in ostello, come avessi vent’anni di meno. Mi appunto i set che non voglio perdermi. Naturalmente riuscirò a vederne nemmeno la metà ed è un risultato comunque clamoroso, visto il numero di palchi e le distanze oceaniche tra l’uno e l’altro. Da quando sono tornato mi porto dentro un arcobaleno di suggestioni vibranti e gloriose.

Già lo so, dureranno chissà quanto. La musica fisica – sapori e visioni, sudore, brividi, estasi, accensioni involontarie del corpo – non ha pari. È presto per una disamina vera e propria, ma un decalogo estemporaneo in soggettiva a caldo, perché no.

1) Per quieto vivere, o per istinto di sopravvivenza (ho pur sempre varcato da un pezzo i 40 e la location principale, il Parc del Fòrum, è enorme) mi sono concentrato sui due palchi centrali e appaiati, dove si esibivano i nomi più attesi. I miei amici duri e puri hanno puntato invece sugli artisti di culto.

2) Non me l’aspettavo, ma uno dei concerti più entusiasmanti è stato quello dei Gorillaz. Damon Albarn in gran spolvero.

3) A pari merito, mister Beck. Ha centrifugato i suoi vecchi e nuovi successi, soprattutto quelli elettronici e dance. Un tripudio di funk coevo e caleidoscopico groove. Purtroppo dopo un’ora e un quarto ha smesso, avremmo voluto che continuasse per ore.

4) Ero partito convinto della presenza dei Massive Attack e degli Strokes. Ma così non è stato, anche se i secondi si sono materializzati la settimana successiva al mio arrivederci (e Julian Casablancas ha esclamato “ce l’abbiamo fatta!”). Tuttavia ci avevano pensato i miei amatissimi Tame Impala a coverizzare, da par loro, “Last Nite”. Psichedelica consolazione. Parentesi: uno dei rimpianti massimi della mia esistenza è di non aver mai ascoltato David Bowie dal vivo ed essermi perso Neil Young alle Terme di Caracalla qualche anno fa, nonostante avessi il mio bravo accredito stampa.

5) Nick Cave si è esibito per due ore abbondanti. Ha lasciato da parte molti, forse troppi classici, per soffermarsi sui primi dischi della sua carriera. Roba di una quarantina d’anni fa. Live molto intenso, su questo non c’è dubbio, costellato da qualche malore. Il “Re Inchiostro” ha poi confessato che non avevano mai suonato “Red Right Hand” così bene.

6) Ho apprezzato molto, inoltre, i Fontaines D.C., i Mogwai, i Low, l’esplosiva Charli XCX, i Pavement, Caribou. E, miracolosamente, una spaghetteria italiana sulla Rambla, dove era ubicato anche il mio supermercato preferito.

7) Hanno ripreso a sferragliare nel cielo le chitarre elettriche. Era ora. Ma il cartellone del Primavera dà ormai asilo a qualsivoglia genere nel big-bang della musica d’oggi. Dal pop più raffinato o mainstream all’elettronica, dal soul al punk, dall’afrobeat alla trap, passando per il reggaeton. E vi confesso che mi son ritrovato, intorno alle due e mezzo di notte, ad assistere a una ventina di minuti del set di Bad Gyal, tutta twerking e coreografie ammiccanti.

8) Perché, volente o nolente, tornavo in hotel (chiamiamolo così) intorno alle sette del mattino. L’unico modo era attendere la riapertura della metro alle cinque a.m. Sveglia coatta dopo due o tre ore: le camerate e le rumorose stanze bonsai con proprietari di casa incorporati non contemplano un regime preferenziale per gli eroi dalla notte. E ci si rimetteva in marcia, decine di chilometri al giorno, dolori ovunque, ma per riposarsi ci sarà l’eternità.

9) Mi piace perdermi beatamente nella folla. In questa folla eterogenea, ma imbevuta dei medesimi ideali, nonostante le differenze di età e di provenienza (c’era un po’ tutto il mondo). Questa vertigine mi era mancata terribilmente. Una libertà impagabile. Come essersi svegliati da un brutto letargo. E non esiste posto più sicuro al mondo del pubblico di massa di un grande festival musicale di qualità. Avrei potuto gettare il portafogli a terra cento volte e cento volte me lo avrebbero restituito. Non esistono persone più antirazziste e a favore di tutti i diritti civili di queste. Né discriminazioni né retropensieri da queste parti, il Pride è un fatto metabolizzato.

10) Arriva il sabato notte. Alle tre vado via dal festival. Alle sei decolla il mio aereo per Fiumicino. Sbaglio terminal, mi imbarco in extremis. Tengo a stento gli occhi aperti. La fatica e la felicità sono ai massimi termini. L’aereo balla per tutto il tempo, forse anche lui sta ripensando ai Gorillaz e a Beck.

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