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Pmi, il paradosso del rimprovero: chi lo stigmatizza non vede la realtà

Pmi, il paradosso del rimprovero: chi lo stigmatizza non vede la realtà
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“Si loda in pubblico e si rimprovera in privato” è uno dei capisaldi della gestione individuale delle risorse umane, una regola universale che ogni capo dovrebbe seguire per accrescere il valore delle persone che governa. Universale, però, solo per la teoria.

Perché se la valenza di questo comportamento assume più significatività nelle grandi imprese dove la popolazione di riferimento è più numerosa e la linea gerarchica più lunga, nelle piccole realtà aziendali (con massimo una cinquantina di dipendenti e due riporti gerarchici) non è un assioma. Anzi, molto spesso, l’esperienza insegna che sono proprio i compagni di reparto di uno s-collaboratore a pretendere una stigmatizzazione pubblica di un atteggiamento, di un modo di fare in azienda non intonato al principio fondamentale di “squadra”, che implica che le persone di cui essa è costituita devono avere coscienza di partecipare ad una sfida, alla fine della quale o c’è la vittoria o c’è la sconfitta! E se c’è qualcuno che, con la sua condotta, non permette alla squadra di raggiungere il risultato programmato, allora il team si aspetta un ammonimento pubblico da parte del capo.

Con la “paternale” viene pubblicamente giudicato il tuo comportamento, non la persona. Il principio è basato sul concetto che per liberarti dai tuoi comportamenti sbagliati (dai quali non sei riuscito a sganciarti da solo, dopo un rimprovero in privato, perché essendo legato alla tua zona di comfort nemmeno li riconosci) si rende pubblico il privato e così lo si annulla, lo si nega nella sua realtà.

Si tratta, ovviamente, di una negazione simbolica: molto spesso il comportamento sbagliato rimane ma, ecco il motivo fondamentale, dopo un rimprovero pubblico non puoi più nasconderlo perché ora tutti conoscono ufficialmente il tuo modo di fare e possono prevedere le reazioni della squadra. Ti senti nudo, smascherato, vulnerabile e l’unica scelta che ti rimane a quel punto, per liberarti dal peso del cambiamento, è riconoscere che devi cambiare. Un riconoscimento che diventa immediatamente pubblico e rivaluta la tua immagine di compagno di squadra.

E’ con la dimostrazione della tua volontà di cambiamento, ossia con il riconoscimento che nella lotta tra un comportamento individualistico e un comportamento da “uomo di squadra” ha vinto la “squadra”, che si ricompone la frattura: da reietto che eri torni ad essere un giocatore della squadra, ad appartenervi con pieno diritto.

Ovviamente anche il richiamo pubblico deve essere finalizzato ad un miglioramento e non ad una umiliazione. Esiste, infatti, un labile confine tra il rimprovero lecito e quello illecito (che può configurare i reati di mobbing, diffamazione, ecc). A influire, però, non è il fatto che il rimprovero avvenga davanti ai colleghi o comunque in pubblico, ma i toni aspri e pesanti, che esorbitano dal potere sanzionatorio che la legge attribuisce al datore di lavoro. In altri termini il richiamo deve conformarsi nell’esposizione a canoni di correttezza, misura e civile rispetto della dignità del lavoratore ,senza eccedere nell’attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, in affermazioni ingiuriose ovvero in offese meramente personali.

Si stigmatizzano comportamenti, non si giudica la persona. Questa impostazione può apparire inaccettabile a uno sguardo dogmaticamente teso a difendere i diritti dell’individuo (che, ripeto, vanno assolutamente salvaguardati), pronto a strillare al totalitarismo di Orwell appena la sfera pubblica interferisce su quella privata. Si tratta, però, di uno sguardo che non vede, di una reazione tipica della mentalità accademica che non vive poi gli effetti terapeutici risolutivi in quelle piccole realtà. La piccola azienda va vissuta per poterla rappresentare.

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