Ho incontrato, per motivi professionali, tante piccole imprese in oltre trenta anni e sono arrivato ad una conclusione: nel 90% delle stesse le attuali competenze sono obsolete e, fatto ancora più grave, non vi è piena consapevolezza da parte degli imprenditori. Questa situazione produce una confusione nella testa degli imprenditori in merito alla interpretazione del profilo professionale medio dei propri collaboratori.

Uno smarrimento che nasce dall’assunto che nelle piccole imprese il saper fare (tradurre i concetti teorici in atti operativi) ha due origini: il “sapere esperenziale” e il “sapere nozionistico”. Il primo “sapere”, molto ben radicato strutturalmente e storicamente nelle aziende di piccole dimensioni, non è altro che la sommatoria progressiva di azioni ripetute da parte di un singolo soggetto, dalle quali egli deduce qual è il metodo migliore, più efficiente e più efficace per risolvere un problema. Non ha studiato sui libri ma ha imparato facendo.

Il secondo “sapere”, una dimensione della conoscenza teorica, è invece l’acquisizione di nozioni, tecniche, culture che indicano i criteri e il metodo ideale per risolvere un problema attraverso scritti (libri, manuali, dispense) o comunicazioni orali (formazione, convegni, ecc.) da parte di saggi della materia. E in questo caso, come ho già avuto modo di ribadire su queste pagine, nelle piccole realtà di impresa ci sono poche competenze tecniche.

Tra l’altro, anche nel linguaggio del settore, chi opera grazie al “sapere esperenziale” viene definito, spesso con enfasi ed accezione positiva, “un pratico”; chi opera grazie al “sapere nozionistico” viene solitamente, in una accezione che rasenta lo spregiativo, chiamato un “teorico”. In verità il primo “sapere” è figlio del secondo. Occorre necessariamente conoscere e anticipare a voce o per iscritto i criteri risolutivi di un qualsiasi problema prima di una sistematica sperimentazione, grazie alla quale, procedendo per tentativi ed errori, i collaboratori riconoscono il percorso migliore, più efficace e più efficiente per risolvere un problema.

In linea di massima, quindi, il “sapere nozionistico” è anche “sapere esperenziale”. Perché allora si addebita l’appartenenza del primo alla teoria e del secondo alla pratica? Perché comunemente si pensa che il “sapere nozionistico” non possa comprendere tutte le possibili sfumature con le quali si potrebbe presentare un problema ed erroneamente si crede che l’esperienza personale permetta di dare a ogni sfumatura la sua giusta risposta.

Ma ciò può valere soltanto a una condizione: che nella sommatoria progressiva di azioni dedicate da un unico soggetto a risolvere i problemi, il fenomeno da affrontare sia già avvenuto almeno una volta e almeno una volta le azioni realizzate da chi lo deve risolvere abbiano dato risposta positiva. In altri termini c’è bisogno, perché l’esperienza valga sempre, di una serie storica. E se il fenomeno accade per la prima volta con caratteristiche del tutto nuove a colui che dovrebbe trovare e dare una risposta sulla base della sua esperienza? Egli non può fare altrimenti che procedere per tentativi ed errori.

Esattamente come procede e ha sempre proceduto il “sapere nozionistico”, ma con questa differenza: ricorrendo al “sapere nozionistico”, frutto del contributo di tanti, è altamente probabile che l’operatore trovi subito la soluzione; ricorrendo al suo “sapere esperienzale”, l’operatore ha invece bisogno di tempo per rimuoverlo e non sempre il tempo necessario per corrisponde al tempo necessario per farlo corrisponde al tempo disponibile per la risoluzione del problema. L’esperienza è unica e individuale; la sapienza è diversificata e pluralistica.

Non ci stiamo però soffermando sulla differenza fra un sapere e l’altro per dimostrare la giustezza dell’uno contro l’erroneità dell’altro, ma lo stiamo facendo per sostenere la bontà di entrambi e la necessità che entrambi vengano utilizzati con rispetto reciproco. È peraltro vero che in tutte le discipline esistono personaggi considerati “teorici” e personaggi targhettati come “pratici”. Ai primi manca ancora l’esperienza pratica, ai secondi la conoscenza teorica.

Il magazziniere semianalfabeta che ascolta con indifferenza o malcelata incapacità di comprendere l’ingegnere con master al Politecnico che gli spiega con grafici e tabelle la formula per calcolare la scorta minima con la quale governare il magazzino, pensando che tutto ciò che “quello” dice è teoria pura, sbaglia di grosso. Così come sbaglia di grosso l’ingegnere con master al Politecnico che guarda con supponenza e quasi fastidio il magazziniere semianalfabeta che cerca di spiegargli come il suo “metodo della tacca” sia la soluzione migliore per governare il magazzino (ovvero tirare una riga rossa sul contenitore/scaffale dei pezzi immagazzinati e rifornire il contenitore solo quando la quantità in esso contenuta dovesse andare sotto la riga), pensando che tutto ciò che quello afferma sia banale “pratica”.

Come risolvere questi due errori di comportamento che trovano una loro giustificazione nel credere alla bontà del metodo da entrambi applicato? Fare formazione manageriale all’ingegnere supponente, forse carente nel “saper essere”, che deve accettare di fare un po’ di pratica in magazzino e formazione tecnica al magazziniere semianalfabeta che deve studiare, per grandi linee, i modelli matematici che presidiano la gestione delle scorte.

A vantaggio della scienza e della sapienza è però dimostrabile che è più facile per chi sa il saper fare rispetto a chi già sa fare e deve imparare il sapere. La scienza e la sapienza, malgrado tutto, prevalgono sulla pratica e la prassi; non sempre ma quasi sempre. Perché se è vero che il sapere nozionistico precede il sapere esperienziale, è anche vero che il ben-sapere è la base del saper fare bene.

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