Avraham B. Yehoshua, uno dei romanzieri più venerati e prolifici di Israele e un accanito sostenitore dei diritti dei palestinesi, ci ha lasciato. Con Amos Oz e David Grossman era parte di quel trio di “tenori” della cultura ebraica, quella pattuglia della pace che non aveva paura di prendere posizioni scomode, come quelle sulla pace e la convivenza con i palestinesi sotto occupazione militare da oltre 50 anni.

Amos Oz ci ha già lasciato da qualche tempo. In sintonia con loro nei suoi libri e sulle pagine dei quotidiani israeliani, ha sostenuto con forza una divisione tra israeliani e palestinesi, una soluzione del conflitto a due Stati, come previsto dagli Accordi di Oslo dei quali Usa e Ue sarebbero i garanti. Uomo schietto, che dopo aver sostenuto la soluzione dei “due Stati” negli ultimi anni aveva capito che non era più praticabile.

Yehoshua, per gli amici “Buli”, ha ricevuto nel 1995 il più importante premio culturale israeliano, l’Israel Prize, insieme a dozzine di altri premi, tra cui il Bialik Prize e il Jewish National Book Award, e il suo lavoro è stato tradotto in 28 lingue. Per la maggior parte della sua vita, Yehoshua ha vissuto in città miste – ebraico-arabe: Gerusalemme e Haifa. Eppure, più o meno nello stesso momento, si trasferì a Givatayim, una delle città più omogenee di Israele, fece un’inversione di marcia mozzafiato. Dopo aver sostenuto la soluzione dei due Stati per 50 anni, annunciò, in una serie di articoli su “Haaretz”, che tale soluzione era diventata impraticabile. “Ciò che deve essere fatto”, scrisse, “è dare a tutti gli arabi della Cisgiordania e di Gerusalemme est la cittadinanza nel quadro di un unico stato arabo-ebraico”. Nel 2016 – annunciato in una conversazione che avevamo avuto nella sua casa piena di libri con vista sul mare qualche giorno prima – scrisse in un articolo che Israele doveva iniziare a concedere lo status di residenza e cittadinanza ai circa 100.000 arabi che vivono nell’Area C della Cisgiordania (che è sotto il totale controllo israeliano), dando così risonanza al piano dell’ex direttore generale della Yesha – il consiglio degli insediamenti colonici – Naftali Bennett, che oggi è primo ministro.

Non capita tutti i giorni che una persona con più di 80 anni cambi opinione, e non tutte le società hanno sperimentato una revisione di approccio come questa da parte del suo più grande scrittore vivente, tanto meno sulla questione che ha diviso la società fin dalla nascita dello Stato: il conflitto con gli arabi. Lo stupore è tanto maggiore se si tiene conto del fatto che nei suoi scritti, sia nei suoi saggi che nella narrativa, Yehoshua si è spesso espresso ferocemente contro l’idea di confondere i confini in generale, e tra ebrei e palestinesi in particolare.

Nitza Ben-Dov, lei stessa studiosa di letteratura e vincitrice dell’Israel Prize, scrive bene quando spiega che l’opera letteraria di Yehoshua è cambiata notevolmente nel corso degli anni, dalle storie surrealiste ai romanzi realistici, ma è rimasto, soprattutto, in sintonia con la società in cui ha vissuto. ”La sua consapevolezza della complessità umana, che ha attinto dalla propria esperienza, ha reso il suo lavoro multiforme”.

Difensore dei palestinesi e sostenitore dei partiti israeliani di sinistra, Yehoshua è stato anche membro del consiglio pubblico dell’importante gruppo per i diritti israeliani B’tselem, che è ferocemente critico nei confronti del trattamento riservato da Israele ai palestinesi. Molte delle sue più grandi opere arrivarono probabilmente a definire l’era in cui furono pubblicate. “Facing the Forests”, pubblicato nel 1968, all’apice dell’euforia post-Guerra dei Sei Giorni, è ancora oggi ampiamente considerato come l’esplorazione più avvincente della Nakba palestinese nella letteratura ebraica, segnalando un risveglio tra la sua generazione; e il suo primo romanzo. “L’Amante”, pubblicato nel 1977, riuscì ad annunciare il cambiamento sismico nella società israeliana con l’ascesa al potere del partito di destra Likud e il declino della sinistra laburista e in gran parte ashkenazita.

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