“Mi hanno detto che non volevano avere problemi con i clienti e così mi hanno licenziato”. “Ho chiamato e mi hanno risposto che ero malato. Qualcun altro mi ha rifiutato perché, secondo lui, non poteva assumere persone come me. A ogni no, ti senti una nullità”. Sono storie di discriminazioni quotidiane. Di bullismo, offese, marginalizzazione, stipendi più bassi e blocchi di carriera. Ingiustizie mascherate da motivi economici o professionali. Non tutto viene denunciato, perché spesso non si può dimostrare o semplicemente per la rassegnazione a una visione del mondo che sembra difficile da scalfire. In occasione della Giornata internazionale contro l’omobilesbotransfobia, ilfattoquotidiano.it ha scelto di raccontare, attraverso le testimonianze dirette, le difficoltà che incontrano le persone transgender nel mondo del lavoro. In termini di occupazione, sono tra coloro che pagano il prezzo più alto nella comunità Lgbt. A partire dal processo di selezione, dove la visibilità può rivelarsi un’arma a doppio taglio e bloccare l’accesso al mercato del lavoro. I dati lo fotografano da anni. Già in una ricerca del 2014 di Arcigay, Unar e Mit, il 13% delle persone gay o lesbiche raccontava di essere stato rifiutato a una selezione in virtù del proprio orientamento sessuale. Percentuale che saliva al 45% per le persone trans. Le cose non sono migliorate. Uno studio del 2019 finanziato dalla Commissione europea rileva come tra la popolazione trans in Ue solo la metà abbia un impiego retribuito, contro una media totale del 69,3%. Inoltre, solamente uno su quattro ha riferito di vivere in un ambiente di lavoro accogliente e di non aver mai avuto commenti negativi relativi alla propria identità di genere. Queste storie servono a dare un volto e una forma ai numeri.

“L’inizio della terapia ormonale è stato il motivo per cui mi hanno licenziato. Dicevano che non volevano problemi con i clienti”

Jacopo ha 26 anni e un diploma di grafica preso a pieni voti. “Sono entrato in un centro stampe con l’identità femminile, non avevo ancora preso coscienza. L’avvio della mia terapia ormonale è stato il motivo per cui mi hanno lasciato a casa: non riuscivano ad accettare che i clienti vedessero il mio cambiamento. Mi chiamavano con pronomi femminili e utilizzavano continuamente il mio dead name (il nome assegnato alla nascita, ndr), anche dopo la comparsa della barba e il cambiamento della voce. Lo facevano davanti ai clienti, che spesso rimanevano straniti. ‘Puoi anche venire con 10 centimetri di barba ma io continuerò sempre a sbagliare perché sono distratto’ mi disse una volta il mio datore di lavoro. E’ stata dura. Siamo andati avanti così per un anno, finché hanno deciso di licenziarmi. Mi hanno detto che non volevano problemi con i clienti. Mi sono rivolto a un avvocato perché avevo tutte le evidenze che provavano come, a livello lavorativo, erano sempre rimasti soddisfatti”.

“A un colloquio mi hanno chiesto se avevo intenzione di operarmi. Non mi hanno preso”

Il percorso a ostacoli inizia già in fase di ricerca e prosegue con quella dei colloqui. Uno dei problemi principali è la mancanza di concordanza tra il nome sul curriculum e quello con cui ci si presenta alla selezione. “Sicuramente da quando ho i nuovi documenti sto ricevendo molte più offerte di lavoro e tutto è più semplice” racconta Alessio, oggi impiegato assicurativo a Milano. “Quando ho iniziato a cercare avevo ancora la carta d’identità vecchia”. La situazione non era sempre facile da gestire. “Sul curriculum vedevano una persona, davanti ne avevano un’altra”. E questo in molti casi influiva sull’esito. “Il rischio è che ti escludano automaticamente dalla selezione. Talvolta non arrivi nemmeno a incontrare l’azienda perché è l’agenzia per il lavoro che fa una scrematura iniziale. Oppure ti tagliano fuori già al telefono, appena sentono la voce. A un colloquio mi hanno domandato se avevo intenzione di operarmi. In un altro caso ho detto che avrei subito una mastectomia e a quel punto la ragazza della selezione ha ammesso chiaramente che, pur avendo il profilo perfetto, non mi avrebbe assunto poiché sarebbe stato impossibile darmi il periodo di malattia”.

“Guadagnavo 150 euro meno delle mie colleghe. E le battute erano insopportabili”

Simona invece ha 39 anni, ha studiato a Bari e ora è un’insegnante precaria di materie scientifiche nel nord Italia. Con gli studenti, specialmente quelli più piccoli, non ha mai avuto grossi problemi. A differenza di quanto invece accade con i colleghi. “Su un centinaio di persone sono riuscita a legare solo con due. L’emarginazione avviene lentamente, in modo subdolo, non plateale. Ti escludono, fanno battutine quando passi oppure gesti offensivi. Un clima cameratesco. Ma è difficile da denunciare, come fai a dimostrarlo? Non ti credono. Io vorrei arrivare al lavoro e dire ‘sono questa, accettatemi per quella che sono‘. Dalla dirigente sono stata accusata di non essere una brava insegnante, mi ha ha umiliato sul piano professionale. Le cose sono migliorare con la didattica a distanza. Ma prima ero alla mercé di queste situazioni. Di sicuro in questi anni non ho mai conosciuto nessuna docente trans, mi sento una mosca bianca”. Anche Erika, che ha 50 anni e lavora a Milano, racconta di vessazioni, mobbing e un ambiente non certo accogliente. “Fino a quando ho avuto il mio salone da parrucchiera le cose andavano bene. Quando sono diventata dipendente è cambiato tutto. Per tre anni ho lavorato con una ditta di pulizie. Ho subito declassamenti e chiacchiere insopportabili. Per loro era una battuta stupida, per me una ferita. Oltre al fatto che per 8 ore di lavoro guadagnavo 150 euro in meno delle mie colleghe. Sentivo la discriminazione sulla pelle, ero percepita in modo diverso dai capi area e dai colleghi”

“Da quando ho rivelato la mia identità le offerte sono crollate del 90%”

Fino a quando aveva il curriculum con il nome e le declinazioni al maschile, le opportunità si presentavano quasi ogni giorno. Una carriera di tutto rispetto: 24 anni, due lauree, una a Milano e una a Parigi. “A un certo punto ho pensato che fosse assurdo non dire chi sono davvero e così ho iniziato a presentarmi con il mio nome che è Simona e a specificare che ho un’identità non binaria”. E in quel momento le offerte sono crollate. “Sono calate del 90%. Forse è sfortuna, ma i fatti dicono che fino a prima avevo una chiamata al giorno. Ora niente. Sono disoccupata e accetterei qualsiasi cosa. Molte persone trans che conosco mi suggeriscono di tornare al curriculum maschile e di aspettare almeno un mese per rivelare la mia identità. Ma non voglio farlo, voglio avere un rapporto onesto con la mia azienda. Se guardo al futuro non sono molto ottimista. Ho capito che essere impiegata comporta imbarazzi e difficoltà. Mi piacerebbe aprire la mia attività e gestirla nel modo più inclusivo possibile”.

“Al lavoro ho nascosto tutto. È stato un male necessario: avevo mutuo e casa da pagare”

L’esigenza di mascherarsi, presentarsi per ciò che non si è o nascondersi pur di trovare un’occupazione e mantenerla è un elemento ricorrente nelle testimonianze. Una circostanza che spesso spinge le persone a mettersi in proprio per poter essere libere di mostrarsi. Andrea Gentile è un fisioterapista di 27 anni. Fino a pochi mesi fa lavorava in una struttura cattolica di Milano, con un contratto a tempo. “Avevo iniziato la terapia ormonale da 4 mesi, cominciavano a crescere i baffi e grazie alla mascherina riuscivo a non mostrarli”. Caffè con i colleghi? “Evitavo sempre, anche se con dispiacere. Ho nascosto tutto, il nome e l’aspetto: avevo paura che non mi rinnovassero il contratto. È stato un male necessario perché avevo una casa e un mutuo da pagare. Ho stretto i denti in attesa dell’indeterminato”. Quando gli hanno riproposto un altro determinato non ce l’ha fatta più. Ha salutato e aperto una partita Iva. “Ho fatto il salto e ora è tutta un’altra storia. L’impegno è raddoppiato ma non mi devo più nascondere. Ora per tutti sono Andrea”. Per Eva la svolta è arrivata quando, grazie al sostegno economico di un’amica ha potuto avviare la sua attività di parrucchiera. Prima lavorava in un famoso salone di Genova. “Quando mi sono lamentata degli straordinari non pagati mi hanno detto che avrei dovuto solo ringraziare di lavorare lì dentro, perché non mi avrebbe preso nessun altro. Ci sono state anche offese verbali molto pesanti da parte di una collega. Ma nessuno ha mai fatto niente, nessuno ha mai preso posizione o fatto richiami. Dopo essermene andata ho anche scoperto che per 4 anni non avevano pagato regolarmente i contributi. Ora fortunatamente ho il mio negozio, dove ho un meraviglioso rapporto con i clienti”.

“Quando ho iniziato la transizione ero ottimista. E invece la mia vita è andata a pezzi”

Antonio ha scelto di usare un nome di fantasia e il perché lo dice chiaramente all’inizio dell’intervista. “Lavoro con un agenzia di catering, se rivelassi chi sono sarei rovinato”. Nato in Sicilia 50 anni fa, ha alle spalle una storia di violenza e rifiuti. “Quando 11 anni fa ho iniziato la transizione, ero ottimista. Ma appena ho cominciato a raccontarlo e a espormi, la mia vita si è frantumata: le persone hanno iniziato a chiudermi le porte in faccia. Lavoravo in una pizzeria, erano convinti fossi omosessuale e una sera ho subito un tentativo di violenza nei bagni del locale”. Anche i rapporti con la famiglia si sono rotti. “Pensano che sia malato. Per loro sarò sempre una donna che ha tradito la sua natura. Ora vivo a Milano ma nessuno al lavoro sa chi sono, mi nascondo. Non ho un passato, non mi posso costruire un presente. E mi sento senza futuro”.

“Mi hanno detto che sono malato mentale. Ogni rifiuto aumenta la frustrazione, ti senti una nullità”

Dopo gli studi all’alberghiero e un periodo dei ristoranti, oggi Derek ha 25 anni ed è disoccupato. Nonostante l’età ha già una collezione di esperienze negative. “Ogni no che ricevi aumenta la frustrazione. Il problema non è tanto mandare il curriculum ma confrontarsi con chi seleziona. Appena vedono il nome diverso iniziano a fare domande, a violare la privacy. Ti costringono a parlare di cose intime e personali. Un giorno ho inviato la candidatura per lavorare con gli anziani. Mi è stato detto che non potevano assumere persone come me perché non sarebbero stati in grado di spiegare cosa siamo. Davanti a frasi del genere ci rimani malissimo. Ho due braccia esattamente come gli altri, non ho niente di diverso. Durante un colloquio per fare il broker assicurativo, mi hanno chiesto se ero operato. Ma cosa c’entra?”. E ancora. “Qualcuno mi ha insultato e mi ha detto che sono ‘un malato mentale da mettere in un ricovero’. Mentre in un’azienda dove ho fatto un periodo da magazziniere, la datrice di lavoro ha cominciato a chiamarmi al femminile e a umiliarmi. Lo faceva come vendetta dopo che mi ero lamentato di irregolarità nelle buste paga e mi ero rivolto ai sindacati. Fin da piccolo ti insegnano che bisogna trovarsi un impiego, che bisogna essere indipendenti. Ma poi scopri che c’è un limite che non dipende dalle tue capacità, ma dalle persone che ti selezionano. E questo ti fa sentire una nullità. Io ho una famiglia che fortunatamente mi sostiene, ma altri rischiano la strada. Per questo sogno di costruire un’azienda e far lavorare i ragazzi e le ragazze che si trovano nella mia stessa situazione”.

Qualcosa si muove: chi ha fatto coming out in azienda e ha trovato supporto e accoglienza

In un contesto che sembra ancora arretrato e ancorato a pregiudizi, emergono anche testimonianze positive. Raccontano di aziende che stanno adottando politiche per l’inclusività, di dirigenti e colleghi rispettosi e attenti. Segno che qualcosa, seppure lentamente, sta cambiando nel mondo del lavoro, così come nella società. Sonia Zuin è un’ingegnera, collabora da 20 anni con il Politecnico di Milano con incarichi di didattica e attività di ricerca. Dopo un matrimonio e due figli, a 46 anni ha iniziato il suo percorso di transizione. “Non sono strutturata, lavoro con contratti rinnovati di volta in volta. Per questo, quando ho fatto coming out temevo che mi lasciassero a casa, magari con motivazioni legate al budget”. Non è andata così. “Tutti i colleghi non solo hanno compreso la necessità che io iniziassi il mio percorso, ma mi hanno sempre supportata con convinzione. Ho voluto parlare con loro uno a uno, perché la transizione è una cosa che devono fare anche tutte le persone che interagiscono con te. Devi lasciare loro il tempo di metabolizzare. Ci ho messo quasi un anno, ma è stato molto utile mi ha permesso di stringere rapporti più autentici. Anche il rettore è sempre stato rispettoso e all’altezza del suo ruolo”. Anche con gli studenti ha scelto la comunicazione diretta, soprattutto prima che gli rettificassero i documenti e la mail. “Avevo 200 persone che si aspettavano un uomo e si trovavano una professoressa con la gonna. Così, prima di iniziare il corso, facevo un’introduzione su di me. Li invitavo a parlami in sede privata nel caso di problemi o disagi. Nessuno ha mai avuto bisogno di contattarmi”. Anche Gabriele, impiegato in una multinazionale di microelettronica di Lecco, racconta di come la sua azienda stia facendo dell’inclusività e dell’apertura una bandiera. “Ho iniziato la transizione a 45 anni. Al lavoro mi hanno detto ‘ti diamo tutto il supporto possibile‘. E così è stato. Mai subito discriminazioni di alcun tipo”. Clara invece si occupa di gestione e logistica in una multinazionale in Svizzera, che prevede al suo interno un dipartimento specifico legato ai diritti e le problematiche lgbt+. E tutti sono tenuti a rispettare la policy interna apposita imposta dall’ufficio centrale “Sono al quarto mese di transizione. Ho fatto coming out in ufficio ed è stato tutto molto corretto e rispettoso”

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