Un cantiere aperto senza una prevista fine lavori: ecco il Regno Unito post-Brexit, tra luci e ombre. I continui rinvii sull’applicazione dei controlli doganali e i volumi commerciali in restrizione alimentano le critiche interne britanniche, ma il record mondiale di accordi di libero scambio, gli impatti finora limitati sul mondo finanziario e la riduzione dell’export Ue verso Londra impongono riflessioni anche da parte di Bruxelles. Eppure, c’è un elemento che suggerisce che oltre Manica le difficoltà pesino più delle opportunità, e riguarda la parola stessa “Brexit”, che si cerca di far passare sempre più sottotraccia nel linguaggio istituzionale e nel dibattito pubblico: anche la Bbc è finita nella bufera.

I rinvii dei controlli doganali – Sono passati più di cinque anni dal referendum sulla Brexit, due anni da quando il Regno Unito ha lasciato l’Ue, e oltre un anno dalla chiusura del periodo di transizione. Da allora, l’accordo di commercio e cooperazione tra Unione europea e Regno Unito (Tca) ha marciato a velocità diverse sulle due sponde della Manica. I paesi Ue hanno applicato tutti i requisiti doganali e i controlli sulle esportazioni all’inizio del 2021, mentre Londra ha rimandato l’introduzione dei requisiti sulle importazioni dall’Ue fino a gennaio 2022 e l’attuazione completa dei controlli, incluso quelli fitosanitari, almeno fino alla seconda metà del 2022. E il governo non esclude ulteriori proroghe (sarebbe la quarta), mantenendo nel limbo le catene di approvvigionamento e offrendo un vantaggio competitivo alle aziende europee, che possono esportare oltre Manica senza costi aggiuntivi, a differenza di quelli che stanno già sostenendo le aziende britanniche per commerciare con l’Unione Europea.

Volumi commerciali in discesa – Il Centre for European Reform (Cer), think tank britannico, stima che la Brexit stia costando al Regno Unito 12,9 miliardi di sterline (15,3 miliardi di euro) in mancati scambi. Il modello del Cer confronta i dati ipotetici di un Regno Unito fittizio (doppelgänger) tuttora dentro l’Unione Europea con i dati reali del Regno Unito post Brexit. Gli algoritmi mostrano che l’abbandono del mercato unico e dell’unione doganale avrebbe ridotto il commercio di Londra del 14,9 per cento. “Il confronto della nostra recente performance commerciale con quella delle altre economie avanzate suggerisce come il Regno Unito abbia assistito a un crollo delle esportazioni simile a quello di altri paesi all’inizio della pandemia, ma poi si sia lasciato in gran parte sfuggire la ripresa del commercio globale”, afferma l’Office for Budget Responsibility (Obr) nell’ultima edizione del suo “Economic and Fiscal Outlook” di marzo. Regno Unito ed economie avanzate hanno subìto una riduzione dei volumi delle esportazioni di circa il 20% durante la prima fase del periodo pandemico, nel 2020.

Tuttavia, prima della chiusura del 2021 le altre economie avanzate hanno complessivamente sperimentato un rimbalzo del 3% oltre i livelli pre-pandemici, mentre l’export britannico è rimasto inferiore del 12 per cento. “Il Regno Unito sembra essere diventato un’economia a minore preponderanza commerciale, la cui quota del Pil è in calo del 12% dal 2019, due volte e mezzo più che in qualsiasi altro Paese del G7”. Record di accordi di scambio. Le conseguenze della Brexit si fanno però già sentire anche al di qua della Manica. Nonostante le restrizioni più severe sul lato europeo del confine, le importazioni di beni del Regno Unito dall’Ue sono diminuite di più (-18% nel quarto trimestre 2021) delle esportazioni di beni del Regno Unito nell’Ue (-9%).

“La debolezza delle importazioni dall’Ue è più evidente rispetto all’aumento del 10% delle importazioni di beni dai paesi extra Ue, suggerendo una certa sostituzione tra di loro”, aggiunge l’Obr. La debolezza “apparentemente paradossale” delle importazioni britanniche dall’Ue rispetto alle esportazioni verso la Ue è dovuta probabilmente a una combinazione di fattori: l’aumento del prezzo delle importazioni di energia, in gran parte extra Ue; i cambiamenti nei flussi commerciali o delle merci che hanno sempre avuto origine al di fuori dell’Ue e che non transitano più attraverso l’Unione se dirette nel Regno Unito e, forse, anche l’aumento del costo-opportunità di esportare nel Regno Unito per le aziende europee, in termini di burocrazia e nuove difficoltà logistiche. È invece un fatto che Londra guardi con sempre più convinzione oltre il Vecchio Continente. Da gennaio 2021 la Terra d’Albione conta il maggior numero di accordi di libero scambio al mondo: sono 95, di cui 35 siglati da quando Londra ha lasciato l’Ue. Tra questi ci sono partner rilevanti come Canada e Giappone, sono in corso trattative per un accordo con l’India, ed è stato avviato il processo per entrare nell’alleanza di libero scambio trans-pacifica, composta da paesi sulla costa dell’oceano Pacifico, denominata Cptpp.

La finanza alla finestra. Lo scontro sul terreno della finanza resta invece ancora incerto, sebbene fino ad ora l’impatto sulla City sia stato limitato e negli ultimi mesi stabilizzato. È quanto illustra l’indagine continuativa della società di consulenza Ernst & Young denominata: “EY Financial Services Brexit Tracker”, secondo la quale dalla data del referendum a oggi il 44% (97 su 222) delle maggiori società di servizi finanziari del Regno Unito ha annunciato o confermato l’intenzione di trasferire operazioni o personale dal Regno Unito all’Uw. Cifra che è quasi raddoppiata da marzo 2017 (53 su di 222, il 24%) ma che è rimasta sostanzialmente invariata nell’ultimo anno (95 su 222, il 43%, a marzo 2021). Nell’ultimo trimestre il numero di ricollocazioni di personale nell’Ue causa Brexit è stato ridotto dalle 7.400 indicate a dicembre 2021 a poco più di 7mila emerse a marzo 2022, in calo rispetto al picco di 12.500 annunciato nel 2016, e alle 10.500 ricollocazioni previste nel 2017. “Sebbene molti piani di emergenza in risposta allo scenario peggiore non siano stati adottati, EY prevede trasferimenti di operazioni e personale delle società di servizi finanziari in tutta Europa, dal momento che la Brexit sta diventando sempre di più parte di un discorso più ampio che coinvolge i driver strategici di business e i modelli operativi”, dicono gli analisti.

Dublino in prima linea – Secondo EY valgono circa 1,3 trilioni di sterline le attività britanniche che un totale di 24 società finanziarie ha dichiarato di voler trasferire nell’Unione Europea, una cifra rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi 18 mesi, ma cresciuta dai circa 800 miliardi di sterline di inizio 2019, a seguito della conferma che l’accordo commerciale non avrebbe offerto concessioni al settore finanziario. Dublino resta tutt’oggi la destinazione più popolare, con 36 società di servizi finanziari che prevedono di trasferire in Irlanda operazioni o personale britannico. Lussemburgo è la seconda destinazione, secondo l’EY Brexit Tracker, guardata con interesse da 29 società, seguita da Francoforte con 23 società e Parigi con 21. Altre città nella lista di sbarco sono Madrid (8), Amsterdam (8), Milano (7) e Bruxelles (6).

Divieto di Brexit – Intanto oltre Manica si cerca di far sparire la Brexit dal dibattito pubblico, o per lo meno dal linguaggio istituzionale. La guida di stile pubblicata dal sito del governo britannico, che offre indicazioni ai funzionari pubblici riguardo lo stile, l’ortografia e le convenzioni grammaticali per i contenuti pubblicati sui suoi canali digitali, ha suggerito di usare il termine “Brexit” solo per fornire un contesto storico, utilizzando invece date specifiche ove possibile. Nello specifico la guida chiede di utilizzare le locuzioni “31 dicembre 2020” o “quando il Regno Unito ha lasciato l’UE” invece della parola “Brexit”, “entro il 31 dicembre 2020” anziché “durante il periodo di transizione” e “dopo il 1° gennaio 2021” anziché “dopo il periodo di transizione”. E negli ultimi giorni anche la Bbc è finita al centro delle polemiche in Scozia, dopo la rivelazione del quotidiano The National di una presunta manipolazione, in una trasmissione di BBC Scotland, di un commento del presidente scozzese della National Farmers Union, apparentemente modificato per rimuovere qualsiasi menzione della Brexit.

Le accuse ai media – C’è un’opinione molto forte in Scozia sul fatto che la Brexit sia stata un errore disastroso e le conseguenze di cui avevamo avvertito fin dall’inizio si stanno realizzando. Sia che la Bbc si rifiuti di riconoscere quell’avvertimento, sia che la Bbc faccia finta che siamo andati avanti, devono davvero guardare molto seriamente a come stanno riportando le conseguenze della Brexit, perché non sono scomparse”, ha affermato Michael Russell, presidente del Partito Nazionale Scozzese e già Segretario scozzese per la Brexit, a The National. Allo stesso quotidiano Alastair Campbell, portavoce storico di Tony Blair, ha dichiarato: “Penso che la Bbc sappia che il governo non vuole che continuino a parlare della Brexit e quindi non lo fanno. È così che funziona l’intimidazione orwelliana”. Al contrario, secondo Campbell, se la Brexit procedesse bene, non se ne smetterebbe di parlare. “Quando non sapevamo cosa sarebbe successo con la Brexit, il dibattito era infinito attraverso la Bbc, Itv, Sky, i giornali. Ora sta effettivamente accadendo con conseguenze nel mondo reale, e a malapena se ne fa menzione”.

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