Non solo Franca Viola. Due anni prima del caso della siciliana che rifiutò il matrimonio riparatore dopo il rapimento e la violenza, emerge, sempre ad Alcamo, un documento giudiziario che svela altre denunce di donne rapite e violentate, una di queste perfino minorenne. Donne e famiglie che avevano rifiutato le violenze e sfidato la vergogna pubblica, secondo i costumi di allora, non accettando il matrimonio riparatore. Storie che non diventarono casi nazionali che non smossero le coscienze di un intero Paese, svecchiandone perfino il codice penale, come fu per il caso Viola, ma che oggi a 59 anni di distanza ridisegnano un contesto. Quello della Sicilia rurale degli anni ’60 dove due donne dissero “no”, spalleggiate dai familiari, rifiutando la violenza come viatico per un matrimonio mai voluto e rivolgendosi alle forze dell’ordine per denunciare la violenza carnale. Un documento in cui sono trascritte le denunce di Alcamo per il solo mese di gennaio, cioè in un solo mese due violenze denunciate. Ben più di una donna, dunque, e prima ancora di Viola, sfidava la morale del tempo, affrontava l’onta della vergogna, pur di non vedere la propria vita legata al violentatore. Questo rivela il documento scovato dall’emittente locale “Alpa 1”.

È il 5 febbraio del 1963, due anni prima che il caso Viola sconvolgesse l’Italia. I carabinieri di Alcamo compilavano un elenco dei denunciati nel mese precedente. Nel primo caso ai danni di una donna di 23 anni, nel secondo, invece, una minorenne, una donna di 17 anni di Partanna e residente a Palermo. Di lei si sa solo questo, al momento, e che avesse denunciato un alcamese di 11 anni più grande di lei “in stato di irreperibilità per violenza carnale, tentato atti di libidine violenta sottrazione di minore alla patria potestà, violazione di domicilio”. Si sa, invece di più, della 23enne, Girolama Benenati, sebbene abbia preferito restare in silenzio allora ed ancora adesso. La donna di 82 anni non ha voluto rivangare la violenza subita da Liborio Pirrone né le offese di chi dopo la considerò una svergognata. A differenza di Franca Viola, non si è mai sposata, né ha avuto figli. Ma col caso di Viola c’è ben più di una somiglianza. Pirrone, morto per una malattia un paio d’anni fa, nel marzo del 2010 era stato condannato a 10 anni di reclusione dal Gup di Palermo per associazione mafiosa. Per la denuncia della donna nel ’63, che lo accusava di “ratto al fine di matrimonio, violenza carnale e lesioni personali” venne processato e condannato a 5 anni e due mesi di reclusione. A niente servì neanche la sua richiesta di perdono che gli avrebbe concesso uno sconto di pena. Benenati fu inamovibile.

Una storia che nulla toglie al caso di Franca Viola, che occupò le prime pagine dei quotidiani dell’epoca (“Leso nell’onore di maschio”, scrisse Indro Montanelli del violentatore). Anche lei 17enne, fece condannare Filippo Melodia, nipote dell’allora boss mafioso di Alcamo Vincenzo Rimi, e i suoi complici. Melodia nella difesa poté appellarsi all’articolo del Codice penale (il 544) che prevedeva che il matrimonio estinguesse il reato di violenza. Il matrimonio, dunque, come un’assoluzione. E tutto ciò era previsto dal codice penale italiano. Un articolo che fu abolito solo nel 1981, anche grazie alla battaglia condotta da Franca Viola, che allora fu difesa dall’avvocato Ludovico Corrao, parlamentare democristiano e poi del Pci. Oggi, invece, queste due storie ridefiniscono un contesto in cui i “no” delle donne erano all’ordine del giorno. O perlomeno, solo ad Alcamo e solo in un mese, venivano trascritte due denunce. Denunce che restituiscono, oggi, una Sicilia di allora in cui la paura e la vergogna non avevano affatto la meglio.

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