Non si può comunicare con qualcuno se prima non lo si ascolta. Solo ascoltando chi ci sta davanti, saremo in grado di imparare a parlare con lui. In nessun caso verremo compresi se non siamo in grado di ascoltare. La stessa cosa avviene con il marmo o con qualunque altra materia che un artista si trovi di fronte. Se prima non si capisce come comunicare con essa, non riusciremo mai ad esprimerci”. Jago parla con passione davanti a una piccola platea improvvisata e magnetizzata dalla sua opera più sconvolgente, il “Figlio velato”, un gigantesco parallelepipedo bianco sul quale giace un gracile corpo di bambino esanime e coperto da un leggerissimo velo. Invece è tutto marmo massiccio, per sostenere il cui peso abnorme a Palazzo Bonaparte hanno dovuto costruire un contro pavimento.

Jago, un giovanotto poco più che trentenne che tuttavia nella voce, pacata, sembra possedere la saggezza del mondo. Le sue opere, esposte a Roma in quella che fu la dorata residenza di Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone, sono tutte sorprendenti. Marmo, lavorato come faceva Bernini, come faceva Canova ma con una modernità figlia del XXI secolo. Non a caso Jago ha lasciato la sua identità di Jacopo Cardillo per diventare una icona social: crea in diretta streaming, coinvolge i follower mentre lo fa.

E’ la prima volta che gli viene dedicata una personale che riunisce tante sue opere importanti. “La Pietà” (rivisitazione di Michelangelo con i ruoli di Cristo e della Madonna invertiti); l’”Habemus Hominem” (un ritratto di Papa Benedetto XVI ‘spogliato’ dei suoi vestiti talari nel vero senso della parola); “Venere” (ormai decrepita e calva); “Apparato circolatorio” (trenta cuori a grandezza naturale realizzati in ceramica, ognuno dei quali fissa un movimento specifico del muscolo e che – ripresi a passo uno – compongono un video nel quale la materia inerte prende vita pulsando come un vero cuore umano).

Sono tutte opere incredibilmente vitali e originali, ma quelle che mi hanno personalmente colpito di più per eversione e abilità tecnica sono alcune realizzate prima dei trent’anni, poco dopo essere stato portato alla Biennale di Venezia da Vittorio Sgarbi (2011). Per esempio, “Memoria di sé”, una pietra di fiume relativamente piccola trasformata in baccello/uovo dalle pareti incredibilmente sottili, dalle quali si intravede fuoriuscire una testa-autoritratto e da essa, a sua volta, un’altra testa, questa volta di uno Jacopo infante. Oppure la serie “Containers”, rocce che sembrano aperte e sfondate come scatole di cartone. Iconica, in questi tempi bellici, anche “Excalibur”: conficcato nella roccia c’è un kalashnikov al posto della spada di Re Artù.

“La mia vita è fatta di fallimenti”, scrive Jago sul suo sito internet, “per scolpire qualcosa bisogna prima romperlo”. Per vedere la sua mostra a Palazzo Bonaparte, invece, non c’è da rompere nulla, se non la pigrizia di uscire di casa. La troverete al piano superiore a quella dei mitici video di Bill Viola, fino al 3 luglio.

(Photo credit Ivo Mej)

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