Massimo disappunto a Buckingham Palace dopo il tour caraibico della “Golden Couple”, il Duca e la Duchessa di Cambridge William e Kate, che proprio in Giamaica – la più grande delle ex colonie caraibiche della Corona – avevano programmato la tappa principale. Atterrati a Kingston, la capitale, martedì 22 marzo, la prima manifestazione di protesta è avvenuta davanti all’Alto Commissariato inglese di Trafalgar Road, la strada più prestigiosa di New Kingston. È il settore “bello” della metropoli, dove hanno sede ambasciate, uffici governativi e shopping centers di lusso, nonché la celeberrima Devonhouse, museo e patrimonio nazionale, che ai tempi della schiavitù era la Greathouse per eccellenza, cioè la casa coloniale dove abitavano le famiglie inglesi più ricche con i loro schiavi incatenati nei seminterrati, la cui proprietà passò successivamente a George Stiebel, il primo miliardario nero della Giamaica.


E proprio sul fosco passato britannico nei Caraibi si è incentrata la protesta: la schiavitù praticata dagli inglesi è la più lunga e sanguinaria della storia, con milioni di africani deportati in Giamaica e nelle altre isole anglofone dei Caraibi. Uno scempio su cui Sua Maestà ha sempre fatto orecchio da mercante, senza mai offrire scuse ufficiali, né tantomeno una compensazione adeguata per i danni materiali e morali arrecati ai suoi sudditi d’oltreoceano.

E tuttora succubi, poiché, malgrado l’indipendenza formale concessa il 6 agosto 1962, la Regina Elisabetta II è ancora Capo di Stato sia in Giamaica che nella maggior parte delle isole, con un governatore che la rappresenta ufficialmente a Kingston. Questi in teoria ha potere di veto su ogni bill (disegno di legge) presentato alla House of Representatives (Parlamento) che deve essere ratificato da costui prima dell’approvazione finale.

Non bastano i Marley

William e Kate se la sono spassata al museo di Bob Marley, per la gioia della Marley Foundation presieduta dalla moglie Rita, dato che il ritorno economico di un evento mediatico di tale portata ha colmato il gap dovuto alla crisi del turismo post pandemia. Ma per il resto, un flop, largamente annunciato fin dall’inizio, con il rifiuto del governo giamaicano di pagare le folli spese di alloggio e protocollo per la visita della preziosa coppia, tra cui l’inestimabile Land Rover d’epoca rimessa a nuovo, che nel 1962 durante la farsa delle cerimonie per l’indipendenza già scarrozzò Elisabetta e il Duca di Edimburgo.

Anche stavolta si sono ripetuti il look coloniale e il distacco degli inglesi dalla povera gente, accentuati dall’alta uniforme indossata da William. Oltretutto, le autorità locali hanno mostrato il solito volto classista, separando nel ghetto di Trench Town i bambini dal corteo reale con delle oscene barriere di metallo, modello campo di concentramento. Tipico purtroppo della dicotomia tra Uptown (New Kingston, Trafalgar Road, Devonhouse ect.) e Downtown (Trench Town, Tivoli Gardens, Denham Town, Rema) con gli orridi alveari umani negli slums immersi in macerie e monnezza, che caratterizzano il contrasto giamaicano tra la ricchezza e il lusso sfrenato di una minoranza arrogante e la miseria senza speranza dei bassifondi; privi di tutto, a cominciare dalla dignità umana, per finire all’assenza di un lavoro decente, di sanità e istruzione, che sono privilegi per i figli di quella minoranza citata poc’anzi.

D’altra parte tre secoli di schiavismo e colonizzazione becera hanno prodotto, oltre allo sterminio di milioni di esseri umani, il frutto avvelenato di una società divisa per caste che non a caso è ancora più evidente nei tre paesi visitati dai futuri regnanti, cioè Bahamas, Belize e Giamaica. Bastano le immagini, le parole sono superflue. E il sentimento anti-monarchico cresce sempre di più. La colpa maggiore degli inglesi è la loro superbia: William aveva un’occasione d’oro, davanti a quello steccato da gulag: di prendere il microfono e porgere finalmente quelle scuse tanto attese per le barbarie del passato che si riciclano nel presente e minano anche le fondamenta del futuro. Tanto più che quella era la loro missione: rinsaldare i rapporti tra la monarchia inglese e le ex colonie, proprio adesso che la proclamazione della repubblica in Barbados, che ha rimosso la regina dal ruolo di Capo di Stato a novembre – unendosi a Guyana, Dominica e Trinidad & Tobago che lo avevano già fatto negli anni ’70 – rischia di innescare una reazione a catena inarrestabile.

Ma il conflitto principale rimane legato alle compensazioni post slavery, che ancora una volta l’entourage reale ha totalmente snobbato, nonostante una causa legale intentata dallo Stato giamaicano nei confronti dell’Inghilterra, a cui è stata richiesta una somma oscillante tra sette e dieci miliardi di sterline per mettere fine al contenzioso.

Epilogo

William, che non è stupido, malgrado tutta l’etichetta obsoleta e dispendiosa sfoggiata nell’occasione, già prima di rientrare in patria ha definito la trasferta “a true disaster“, un vero disastro, marcato oltretutto dalla forzata interruzione della tappa in Belize, poiché laggiù le proteste contro i reali erano sfociate in atti di violenza. E neanche il Padreterno è stato clemente: venerdì 25 marzo, durante l’ultima tappa in Bahamas, ha mandato giù una pioggia torrenziale che ha interrotto i cerimoniali e inzuppato per bene le velleità nostalgiche di William e Kate, che han dovuto rinunciare di corsa alla storica Land Rover scoperta. Un diluvio provvidenziale, a simboleggiare la fine di un’epoca. E, si spera, l’inizio di un’autonomia reale – ma non in senso monarchico – per queste isole incantate agli occhi dei turisti, ma devastate nell’animo dal retaggio del passato, che si perpetra tuttora.

(Testi e photo credit: © F.Bacchetta)

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