Anni fa, nel 2013, scrissi qui un post a proposito della fotografia al femminile e, partendo da un’affermazione della fotografa Giuliana Traverso, mi avventurai nel tracciare alcune possibili considerazioni. Da allora a oggi ho visto con piacere nascere varie iniziative e pubblicazioni volte a valorizzare e incentivare la pratica della fotografia da parte di validissime autrici.

Per esempio è in corso fino al 27 marzo la Biennale della Fotografia Femminile che si svolge a Mantova sotto l’attenta direzione artistica di Alessia Locatelli. Sono presenti con mostre, incontri e workshop fotografe internazionali riunite, con i loro lavori, dal tema di quest’edizione del festival che è Legacy: eredità, intesa come lascito per il futuro, in un’epoca di distopie e sconvolgimenti naturali, geopolitici, economici, tecnologici. E Mantova avvolge queste visioni contemporanee del mondo nei suoi antichi tesori, da Palazzo Te alla Casa del Mantegna. Un contrasto che evidenzia in maniera prepotente tutte le nostre contraddizioni.

C’è poi, in questi stessi giorni, un altro evento che ci racconta la personalità, la qualità umana, l’etica ante litteram e l’occhio infallibile di una grande donna, una grande regista, una grande fotografa e non solo. Parliamo di Cecilia Mangini, troppo poco conosciuta nel mondo a volte un po’ distratto della fotografia, molto più rispettata e valorizzata in quello del cinema. Nulla di strano, però: anche se, cronologicamente, è stata la cinepresa ad arrivare per seconda, lei stessa si considerava più regista che fotografa. Parliamo al passato perché se n’è andata un anno fa, in punta di piedi. Per fortuna a porre rimedio e restituircela dietro la sua Zeiss Super Ikonta 6×6 c’è un bel film, da poco in circolazione, che s’intitola Il mondo a scatti, per la regia di Paolo Pisanelli e della stessa Mangini.

Un film indefinibile – e questo è un pregio – un po’ esoterico, delicato, profondo e poetico. Un lungo dialogo tra lei e il regista, e tra due approcci al mondo del reale, quello delle immagini fisse e quello delle immagini in movimento. Passando da reminiscenze ancestrali di remoti pittogrammi nelle grotte a suggestioni psichedeliche di rosse luci in camera oscura, dove un’allucinazione alchemica crea apparizioni in una bacinella. Cecilia Mangini ha una biografia sterminata e se parliamo di date lei precede tutto e tutti: nel 1952 produce, trascinata da luce e istinto, una serie fotografica in pieno stato di grazia nelle cave di pietra pomice a Lipari; in altri luoghi del nostro Sud (è nata in Puglia) pratica già, nello stesso periodo, una sorta di street photography con intenzioni sociali.

Ma è il cinema a darle maggiore successo e visibilità, portandola anche a una lunga collaborazione con Pier Paolo Pasolini. Spirano venti di guerra, purtroppo, in questi nostri giorni, e spiravano anche in Vietnam negli anni ’60. Cecilia, col marito regista Lino Del Fra, ci andò restandoci tre mesi con l’intenzione di girare un documentario e realizzò in fase di sopralluoghi preliminari molte foto. Rientrata a Roma le mise da parte ma, essendo per varie ragione tramontata la possibilità di tornare in Vietnam per girare il suo film, dimenticò completamente quelle foto che riposarono in un armadio di casa per decenni.

Che belle sono le riscoperte tardive e inaspettate, il mondo della fotografia ne ha viste diverse. Dunque questo tesoro nascosto per anni e fortuitamente riapparso ha preso la forma di un altro documentario firmato alla regia ancora da Mangini e Pisanelli: Due scatole dimenticate – un viaggio in Vietnam.

Inoltre una grande retrospettiva fotografica a lei dedicata ha toccato varie tappe italiane col titolo Cecilia Mangini – visioni e passioni, fotografie 1952-1965 (attualmente visibile a Bari nel Palazzo del Consiglio regionale della Puglia).

Cecilia Mangini, senza far rumore, senza allure intellettualistica, ma piena di coraggio, coerenza, empatia e lungimiranza è stata semplicemente la prima donna documentarista italiana, sia in senso cinematografico che fotografico (è doveroso citare anche, tra le grandi pioniere, Marcella Pedone, Lisetta Carmi, Chiara Samugheo). Cecilia girava per strada e fotografava la vita, la società, il lavoro, quando nessuna donna – e pochissimi uomini – lo facevano. Tutto questo le va riconosciuto e basta sentirla parlare (e vederla) in qualcuna delle videointerviste che ultranovantenne ancora rilasciava con infinita intensità, per capire al volo come troppo distratti a volte non notiamo le perle davanti a noi. Quando questa piccola grande donna nei primi anni ’50 camminava da sola, al Sud, con la sigaretta tra le labbra e una macchina fotografica tra le mani, guardata come un’aliena, spesso si sentiva apostrofare: “Questo non è un mestiere per signorine!”. E lei ha tirato dritto, con sguardo limpido e idee precise, per altri settant’anni.

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