C’è un Paese che è stato invaso. I bombardamenti sui civili, sugli asili, sugli ospedali. Centinaia, forse migliaia di morti innocenti. E poi c’è la versione degli invasori, che stride con le immagini, le testimonianze, i racconti di chi è lì e può vedere con i propri occhi le atrocità commesse in Ucraina. In ogni guerra la prima vittima è la verità ma le fake news con cui la stampa di regime informa i russi su quanto succede oltrefrontiera supera ogni immaginazione. È venerdì sera. A San Pietroburgo è l’ora di cena. La vita, sulle sponde della Neva, scorre normalmente. Non ci sono allarmi aerei, non si corre nei rifugi. Si sta davanti alla tv, si mangia e si ascoltano le notizie del telegiornale. “Le atrocità commesse dall’esercito ucraino a Volnovakha sono impressionanti” esordisce l’inviato di Pervyj Kanal (Primo Canale) dal Donbass. “I soldati di Kiev spingono la popolazione negli scantinati, costringendola a rimanere chiusa senza luce, acqua e cibo. I carri armati del regime nazionalista sparano contro gli edifici residenziali, i soldati costringono donne e bambini del posto a posizionarsi davanti ai tank per fungere da scudo. Così si comportano i militari di Kiev”.

La rete ammiraglia descrive inoltre “le atrocità degli stranieri nei confronti dei russi emigrati in altri Paesi” mentre subito dopo lo stesso canale manda in onda un servizio sull’imprevedibilità degli ucraini, “che potrebbero usare da un momento all’altro le armi biologiche contro di noi. Ci sarebbe una catastrofe su scala internazionale a causa di queste azioni sconsiderate”. Dei bombardamenti a tappeto su Mariupol e Kharkiv e degli ospedali infantili abbattuti nemmeno l’ombra, ovviamente. Il “valore” e la “nobiltà” della Bielorussia vengono sottolineati in un video in cui Putin e Lukashenko compaiono a braccetto: “I nostri amici di Minsk sono pronti a sacrificare le proprie risorse energetiche per mantenere la centrale nucleare di Chernobyl ma l’esercito ucraino continua a sparare mettendo a rischio la sicurezza dei reattori”. E’ Kiev, insomma, a provocare deliberatamente una possibile catastrofe, per chi non lo avesse ancora capito. Occhio poi al rischio imminente di “attentati dinamitardi da parte dei nazionalisti ucraini sul territorio bielorusso”, come se fosse Minsk a rischiare una guerra e non l’Ucraina sotto attacco da oltre due settimane. Un racconto surreale che farebbe ridere se in mezzo non ci fosse un conflitto vero e proprio e non una “operazione speciale” o addirittura di “peacekeeping”, come l’ha definita il Cremlino.

In una Russia mediaticamente paralizzata dalla paura, dove si rischiano molti anni di carcere se si sostengono posizioni contrarie al governo, fra le poche fonti di informazione non omologata c’è la voce di Novaya Gazeta, che racconta la storia di un giovane insegnante di geografia. Si chiama Kamran Manafly ed è stato licenziato e denunciato in queste ore per aver pubblicato un post pacifista. Ha perso il lavoro e rischia il carcere. O di un ingegnere scientifico, Stanislav (preferisce omettere il cognome), che ha fatto le valigie e lasciato il Paese: “Le autorità hanno superato ogni limite. Ho il diritto di abbandonare questa terra e di andarmene lontano, in Kirghizistan, assieme a tanti altri colleghi, a sviluppare laggiù i nostri progetti”. Come spiega la testata giornalistica, rimasta uno degli ultimi baluardi di libertà e indipendenza, “se fino al 23 febbraio il settore IT in Russia era il luogo di lavoro più desiderabile, dopo questa data la situazione è cambiata: file di specialisti informatici sono in fuga dal Paese” e solamente per quanto concerne le offerte di lavoro in Armenia sono stati pubblicati oltre 8mila curriculum in queste due settimane. “L’informatica in Russia era diventata il principale ascensore sociale e adesso invece è il maggiore incentivo all’emigrazione”.

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