Nomès un club, ovvero solo un club. Un club come tutti gli altri. Sempre prestigioso, anche iconico, ma simile alla concorrenza. Nelle ultime stagioni il Barcellona ha progressivamente perso quell’imprinting identitario che era riuscito a trasformare il noto motto societario mès que un club in un brand riconosciuto a livello internazionale. Politiche societarie scellerate, acquisti costosissimi ma spesso non all’altezza delle aspettative e un progressivo inaridimento della Cantera hanno omologato i blaugrana a un tipico club da Superlega, torneo di cui il Barcellona è tra i principali sostenitori. Del resto, nonostante sia la società calcistica numero uno al mondo per fatturato annuo, il Barcellona è una fabbrica di debiti alla continua ricerca di denaro per tamponare bilanci da tribunale fallimentare. In attesa di concretizzare il campionato per ricchi, il prossimo tabù in procinto di cadere in casa blaugrana è il Camp Nou, i cui diritti di denominazione sono stati messi sul piatto nella trattativa che ha portato il colosso svedese Spotify a diventare il nuovo sponsor del club catalano. In poche parole, tra qualche tempo la casa del Barcellona potrebbe chiamarsi Camp Nou Spotify, o qualcosa di simile.

Per 107 anni la maglia del Barcellona è rimasta senza sponsor. Per diverso tempo il club aveva reputato inappropriato “macchiare” con uno sponsor una divisa che, negli anni del regime franchista, era diventata una sorta di bandiera per la Catalogna. Quindi un eventuale marchio commerciale stampato sul blaugrana era percepito come un insulto nei confronti del proprio territorio e della propria gente. Una scelta che rappresentava anche, a livello di immagine, un ulteriore elemento di differenza dal Real Madrid. Ma, a metà degli anni 2000, il costante aumento dei costi di gestione ha reso necessario il superamento di un simile dogma e curiosamente la svolta è arrivata proprio per mano di Joan Laporta, colui che durante la sua prima presidenza del club aveva dichiarato che mai e poi mai il Barcellona avrebbe avuto uno sponsor sulla maglia.

La fase di transizione è stata appositamente studiata per essere la più morbida possibile e per far digerire al popolo del Camp Nou un tale, radicale cambiamento nella maniera meno traumatica possibile. Per questo motivo è stato inizialmente scelto l’Unicef, per una sponsorizzazione a scopo benefico che non portava soldi nelle casse del club. Da un lato il Barcellona faceva il botto a livello di immagine, incrementando il suo status “etico” rispetto al resto dell’élite europea, mentre dall’altro preparava il terreno alla vera rivoluzione, che si sarebbe concretizzata cinque anni dopo con la sponsorizzazione della Qatar Foundation. Si rimaneva sempre in ambito no-profit, ma in questo caso la Fondazione pagava ai catalani 150 milioni complessivi per i cinque anni di durata del contratto. Una cifra salita a 171 milioni quando, due anni dopo l’accordo, è subentrata la Qatar Airways. Ma ormai tutti si erano abituati allo sponsor sulla maglia del Barcellona, che da quel momento ha sempre giocato al rialzo a ogni scadenza. Nel 2017 è arrivata la giapponese Rakuten, per un accordo quinquennale da 55 milioni l’anno, contro i 30 dei qatarioti. Per Spotify si è arrivati a 93 milioni annui per tre anni.

Se l’accordo Barcellona-Spotify è facilmente spiegabile dal punto di vista della società spagnola, che solo rispetto agli anni con il Qatar ha più che raddoppiato gli introiti, in molti si sono chiesti cosa abbia spinto i giganti dello streaming musicale a investire una simile cifra nel calcio. È vero che recentemente il mondo dello sport è stato preso d’assalto dalle piattaforme dello streaming, da Netflix a Amazon fino alla Disney, ma Spotify opera in un altro campo. Da anni la società fondata da Daniel Ek è protagonista di una crescita continua e imponente, tanto in termini di abbonati quanto di utenti. Una parabola ascendente che deve continuare non solo attirando nuovi clienti, ma anche assicurandosi che quelli già presenti continuino ad utilizzare la piattaforma. La ricerca di nuovi servizi di offerta è quindi essenziale, soprattutto in un periodo in cui Spotify è criticata da molti musicisti internazionali per l’iniqua redistribuzione dei guadagni tra i titolari di diritti d’autore, dal momento che adotta il cosiddetto sistema pro rata anziché il modello user centric. In poche parole, con quest’ultimo i soldi delle sottoscrizioni vanno ai musicisti effettivamente ascoltati dall’utente e non finiscono in un fondo comune poi ripartito tra gli artisti più ascoltati da tutti nel mese di riferimento, favorendo quindi le superstars. L’accordo con il Barcellona significa accedere a un nuovo mondo, fatto di servizi e prodotti esclusivi del club, come i podcast. Un business case che secondo gli esperti di Spotify vale la spesa complessiva di 280 milioni.

L’accordo con Spotify non è stato esente da turbolenze interne alla dirigenza blaugrana, con l’avvenuto siluramento dell’amministratore delegato Ferran Reverter, in carica da solo un anno, a causa delle forti divergenze con il presidente Laporta in tema di politiche commerciali del club. Quelle che, allo stato attuale delle cose, rappresentano la priorità in casa Barcellona, vista la situazione ancora critica delle finanze. Eppure a gennaio la squadra è stata rinforzata attraverso altre spese multimilionarie, con l’acquisto di Ferran Torres e i prestiti onerosi di Pierre Emerick Aubameyang e Adama Traorè. In attesa della crescita e del consolidamento del nuovo progetto tecnico-sportivo targato Xavi, l’accordo con Spotify garantisce un po’ di ossigeno, con la clausola sui naming rights dello stadio a fungere da ulteriore garanzia. Nell’arco di quindici anni, ciò che è iniziato con una sponsorizzazione di fatto pagata dal club a fini umanitari si è evoluto in una fonte di guadagno sempre più massiccia, spostando i paletti di volta in volta più lontano. Oggi si è arrivati al Camp Nou. Ma in cambio del ritorno della squadra a una dimensione competitiva ai più alti livelli, Laporta è convinto che i tifosi possano metabolizzare tutto.

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