I cittadini non europei, sia soggiornanti di lungo periodo che i titolari di permesso unico di lavoro, non possono essere trattati in modo diverso dai cittadini italiani nell’accedere al beneficio dell’assegno per il nucleo familiare, anche se alcuni congiunti risiedono temporaneamente nel paese di origine. Lo sottolinea la Consulta nelle motivazioni della sentenza numero 67 con cui la Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate dalla Cassazione, ha affermato che il principio del primato del diritto dell’Unione costituisce “l’architrave su cui poggia la comunità di corti nazionali, tenute insieme da convergenti diritti e obblighi”. E la parità di trattamento fra i destinatari di questa provvidenza (che ha natura sia previdenziale sia di sostegno a situazioni di bisogno) è garantita dai giudici, tenuti appunto ad applicare il diritto europeo .

Il principio, valorizzato nei suoi “effetti propulsivi nei confronti dell’ordinamento interno”, non è alternativo – si legge nella sentenza – al sindacato accentrato di costituzionalità configurato dall’articolo 134 della Costituzione, “ma con esso confluisce nella costruzione di tutele sempre più integrate”. In risposta a due rinvii pregiudiziali promossi dalla Cassazione, “la Corte di giustizia dell’Unione Europea – rileva una nota di Palazzo della Consulta – aveva ritenuto non compatibile la disciplina italiana relativa all’ANF (assegno per il nucleo familiare) – con due direttive europee (2003/109 sui soggiornanti di lungo periodo e 2011/98 sul rilascio di permesso unico di lavoro)”.

Le pronunce della Corte di Lussemburgo, sottolinea la nota, precisano che “se è vero che sono i familiari e beneficiare dell’ANF, è altrettanto vero che l’assegno è versato al lavoratore o pensionato, componente a sua volta del nucleo familiare”. E ancora, “l’obbligo di non differenziare il trattamento dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti è imposto dalle direttive in modo chiaro, preciso e incondizionato, come tale dotato di effetto diretto”.

Nella sentenza, la Corte costituzionale ha osservato che la procedura pregiudiziale, oltre a rappresentare un canale di raccordo fra i giudici nazionali e la Corte di Lussemburgo per risolvere eventuali incertezze interpretative, concorre ad assicurare e rafforzare il primato del diritto dell’Unione, alla cui attuazione i giudici comuni partecipano secondo il meccanismo del controllo diffuso, “disapplicando all’occorrenza” qualsiasi disposizione del diritto nazionale contrastante con il diritto dell’Unione.

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