Cultura

Firenze, la Disneyland del Rinascimento tra sfruttamento sfrenato e calo dei turisti: perché la bellezza dell’arte rischia di non bastare più

L'ANALISI - La polemica sulla ruota panoramica a pochi passi dalla Fortezza da Basso simboleggia la tensione che ormai da almeno vent'anni vive il capoluogo toscano. Le concessioni al "consumo" della bellezza della città sono tra le cause dello svuotamento del centro storico e alla mancanza di visitatori. Quel che manca, rispetto ad altre mete d'arte, è affidarsi con più fiducia alla propria storia bimillenaria, all'originale. Per intendere il patrimonio culturale non come petrolio (destinato ad esaurirsi), ma come materiale da valorizzare

di Marco Ferri

Attrazione più azzeccata non ci poteva essere. Una ruota panoramica alta 55 metri a pochi passi dalle mura della Fortezza da Basso progettata da Antonio da Sangallo su ordine del primo Duca di Firenze, Alessandro de’ Medici. È in quei pochi metri di distanza tra le due costruzioni – la prima spettacolare, ma assolutamente effimera se confrontata al quasi mezzo millennio d’età della seconda – la tensione che vive ormai da un paio di decenni Firenze. I campioni di luoghi comuni la definiscono “la culla del Rinascimento”, ma in realtà la città subisce anche un’altra etichetta, poiché costantemente bullizzata da chi la considera (e la vuol mantenere) la “Disneyland del Rinascimento”.

Perché a Firenze la cultura e la bellezza non basta ammirarle; no, bisogna sperimentarle, emozionarsi come si facesse un giro sulla ruota panoramica a 55 metri dal suolo. Lassù, anche un refolo di vento può mettere ansia. Così come in piazza della Signoria anche una sosta prolungata (bastano anche un paio di minuti) a scrutare il braccio muscoloso del Perseo che mostra la testa mozzata di Medusa, in una scena tra le più gotiche che si possano immaginare, può causare il temporaneo schiacciamento delle vertebre cervicali e provocare lievi giramenti di testa, che qualcuno ha voluto definire Sindrome di Stendhal.

A Firenze l’arte non si vede, si vive. Ma questo crea non pochi problemi perché se ciò che si vive non è spettacolare – secondo i canoni del terzo millennio, ovviamente – allora perde d’appeal. E allora magari, sempre in piazza della Signoria, finisce che il suddetto Perseo di Benvenuto Cellini – scultura bronzea originale che gode ottima salute – oppure il Ratto della Sabina di quel genio di Giambologna che sembra un gruppo di tersicorei e invece è un rapimento bello e buono (anch’esso originale, ma in marmo e in non buone condizioni), in realtà attraggono meno della copia del David di Michelangelo, distante pochi metri ma forte di tutta la sua potenza comunicativa che ne fa uno dei due simboli del brand Firenze (espressione orribile perché sottintende un livello culturale notevole, ma poi si scopre che chi la usa spesso presenta forti lacune), insieme alla Venere di Botticelli, ben custodita al secondo piano degli Uffizi. La tensione tra la Firenze rinascimentale e quella postmoderna è talmente forte che ormai più nessuno fa caso se abbiamo di fronte un originale o una copia di un picco d’eccellenza dell’arte occidentale. L’importante è il farsi il selfie con l’opera alle spalle, come la bandierina sulla vetta dell’Everest.

Forse perché a nessuno più interessa “la storia delle cose”? E non diamo sempre colpa alla scuola: le regole del calcio, così come il funzionamento degli smartphone non si insegnano nelle aule, eppure tutti li usiamo. E anche con certe abilità. No, il problema è che si viene a Firenze proprio con lo stesso spirito di chi va a trovare il paese di Topolino, Pippo, Pluto e Paperino. E se li incontro mi ci devo fare il selfie per dimostrare che sono hic et nunc con lui, e gli devo parlare. Perché così mi emoziono. Ma Cosimo a cavallo, vicino alla Fontana del Nettuno di Ammannati, cosa vuoi che dica? E al “porcellino” – che poi è un cinghiale – non posso toccare la coda, bensì il muso, perché così si fa. Ma davvero dovrebbe importarmi sapere che quella bestia in bronzo, in realtà è la seconda copia dell’originale in marmo che è agli Uffizi, mentre la copia secentesca del Tacca è al Museo Bardini dal 2004?

E i restauri? Oggi come ieri dovrebbero essere anche straordinarie occasioni di studio, e si sa, l’apprendimento presuppone concentrazione, silenzio, riflessione, confronto. Ma oggi un cantiere di restauro non è tale se non è “sotto i riflettori”, se non è “aperto al pubblico”, in una parola, se non è “spettacolo”. Anche perché questo genera reddito, fa business, propaga la voglia di show. Basta pensare ai restauri più recenti come quelli della Pietà di Michelangelo nel Museo dell’Opera del Duomo o degli affreschi di Masaccio nella Chiesa del Carmine; ma già 10-15 anni fa l’andazzo era quello: gli affreschi di Agnolo Gaddi della Cappella Maggiore della Basilica di Santa Croce, quelli di Ghirlandaio nella Basilica della Santa Trinita, tutti dotati di un ponteggio adatto a ospitare gruppi di turisti a caccia di emozioni. A pagamento, ovviamente, e quasi di corsa, perché il tempo è denaro.

Foto Paolo Lo Debole/Imagoeconomica

Si restaurano i “segni” di un passato dorato, ma Firenze ha piegato se stessa ai voleri anche dell’arte contemporanea, nonostante si faccia fatica a credere che un giapponese o un australiano – quando finalmente potremo tornare liberi di viaggiare senza alcun problema – siano disposti a farsi 15-20 ore di aereo per venire a Firenze a vedere oggetti e mostre di arte contemporanea, che ormai da troppi anni sfruttano location d’eccellenza affinché la fulgida luce del Rinascimento illumini anche opere e artisti del nostro tempo: basta pensare all’artista inglese Damien Hirst cui è stato concesso di mostrare il suo teschio tempestato di diamanti nella camera di Cosimo I, accanto allo Studiolo di Francesco I a Palazzo Vecchio (lo stesso autore di recente ha rivelato di averlo venduto a se stesso per aumentarne il valore..); oppure a Giuseppe Penone che in soli sette anni è stato protagonista di tre mostre a Firenze, nel Giardino di Boboli, in Piazza della Signoria e agli Uffizi. Basta pensare a Palazzo Strozzi – il più bel cubo del Rinascimento qualcuno lo definì – che diventa il fondale di un’opera dell’artista francese JR che nel suo collage fotografico commette anche un’evidente inesattezza; basta pensare ancora a Piazza della Signoria, troppo spesso ostaggio di opere d’arte concettuali o astratte contemporanee di dubbio gusto, buone solo a far discutere fiorentini, italiani e stranieri frettolosi. Basta pensare, infine, alle recenti polemiche per le proiezioni (con nome dello sponsor in bella vista) sul Ponte Vecchio, uno degli edifici preferiti da chi immagina Firenze come un parco giochi.

Ma non basta: Firenze è la Disneyland del Rinascimento anche nell’immaginario di chi vive dall’altra parte del globo: è sufficiente non dimenticare gli errori – voluti – con cui sono state infarcite le serie tv dedicate ai Medici. Sbagli, sviste, abbagli commessi volontariamente perché servivano a “far riconoscere” Firenze nel mondo (visto che le serie sono state vendute in decine di paesi del mondo), dove evidentemente hanno un’idea stereotipata della città.

Tutte queste concessioni allo sfruttamento sfrenato delle bellezze artistiche fiorentine, e l’indotto che genera, sono tra le cause principali dello svuotamento del centro storico, ormai sempre più simile a un mangificio a cielo aperto collegato a un sistema alberghiero estremamente diffuso, a tal punto che, per illustrare gli splendori e le magnificenze di Firenze, di recente la Rai si è avvalsa del direttore degli Uffizi Eike Schmidt – che pur competente è pur sempre un professionista tedesco e più che altro pro tempore – invece di coinvolgere una persona nativa e altrettanto preparata. Un fatto che per città come Roma, Napoli, Genova, Bologna sarebbe impensabile.

Da due anni però – salvo i periodi estivi – la Disneyland del Rinascimento ha le luci abbassate, affievolite perché soffre della mancanza di visitatori. Non così altre città d’Italia – se pur turistiche – che non hanno arretrato di fronte all’avanzata delle regole mordi-e-fuggi. Potremmo far riferimento alla città del Vesuvio, dove i quartieri sono ancora in mano ai napoletani che non hanno mai smesso di vivere la propria città. Firenze no: è triste, scontata, svogliata nonostante la propria forza attrattiva sia intatta. Quel che le manca è di tornare ad affidarsi con fiducia alla propria storia bimillenaria, alla propria cultura, all’originale, vero Rinascimento – non solo quello di facciata – che fu la reazione aristocratica alla terribile peste nera del 1348, la quale liberò risorse per una popolazione decimata, ma fiera e decisa a ripartire.

Finché Firenze non smetterà di intendere il proprio patrimonio culturale come petrolio – spesso si ascoltano simili, azzardati paragoni – la tendenza non sarà invertita. Il petrolio è qualcosa che, se pur dannoso, viene sfruttato, è effimero, destinato a esaurirsi. Il patrimonio artistico, architettonico, librario, archivistico, archeologico e immateriale è invece una ricchezza, non da sfruttare, ma da valorizzare, magari inventando nuove forme di mecenatismo. Firenze ha tanto da dare a chi sa cercare e non vuole solo fare l’inchino ai totem o un banale selfie davanti a un’icona. Walt Disney diceva “se lo puoi immaginare, lo puoi fare”; ma il Buonarroti, 500 anni prima, aveva pensato la stessa cosa realizzando il David.

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