Viviamo in una società sessuofobica. A volte me ne dimentico, che so, mentre preparo il tè al mattino e sono ancora con un piede nel letto. Sarà che di stimoli erotici, di corpi nudi in vetrina, ne è piena l’aria: tv, pubblicità, Internet. Ma quando si parla di sesso le cose stanno in un’altra maniera. Per una larga fetta – larghissima – della nostra società il sesso è ancora “sporco” e “basso” (contrapposto a ciò che è “pulito” e “elevato”, inteso nel senso di “virtuoso”). E allora è meglio che stia nascosto. E che sia censurato.

Viviamo anche in una società che di sesso sa poco o nulla. Pensiamo di saperne – io stesso ne ero convinto – ma non è così. Per esempio, siamo convinti che la sessualità femminile sia una versione light della sessualità maschile (vedi la confusione che regna intorno a tutto ciò che riguarda il coito); ignoriamo cosa sia la non-concordanza tra risposta genitale ed eccitazione soggettiva, diamo per scontato che il desiderio sessuale sia un impulso; siamo carenti persino sulle nozioni anatomiche di base. I motivi di tante false credenze sono infiniti (alla base di tutto – mi sto già immaginando chi sbufferà, storcendo il naso – c’è il patriarcato) ma non è questa la sede per parlarne.

Quello che mi preme dire, in parte, è che nel deserto istituzionale che permea, in Italia, l’educazione sessuale, c’è chi, pur avendone fatto un lavoro, tenta di remare in direzione contraria. Ci sono, naturalmente, educatrici ed educatori sessuali, ma anche aziende che operano nel settore del benessere sessuale, divulgatori e divulgatrici, fotografi, sex worker, artiste e artisti e performer. Tutte persone che si portano dietro, in partenza, per il solo fatto di fare ciò che fanno, un certo stigma sociale. Stigma che, va da sé, aumenta nel caso siano donne. Ma non c’è solo questo.

Prendo l’ultimo caso che mi è capitato sott’occhio (ne potrei citare decine solo negli ultimi mesi): c’è un’azienda che opera nel settore del benessere sessuale, come scrivevo più su, che si chiama Wovo, il cui profilo Instagram, appena pubblicano un contenuto, viene sospeso. E ciò succede nonostante i contenuti rispettino le regole. Per esempio – follia/1 – tutti i capezzoli sono pixellati; oppure – follia/2 – al posto di “pene” è meglio scrivere “p3ne”, o al posto di “anale” è meglio “an4l3”, e così via. Che cos’è, allora, che dà fastidio? Dà fastidio che si parli di sesso in sé (anche qui, infatti, per non incorrere nella censura è meglio usare “s3sso”).

Pur frequentandoli, non sono un esperto di social network – il 90% dei giornalisti, come si sa, non è esperto in nulla – però mi sento di poter dire che queste piattaforme non sono un gioco. Grazie ai social c’è chi si è inventato un lavoro; e, attraverso i social, c’è chi lavora. Ora, qui non si tratta di rispetto delle regole (che, come per Instagram e compagnia, esistono). Qui si tratta di rispetto nei confronti di lavoratori e lavoratrici. Con un’aggravante (ed è questo il succo del discorso): la sessualità, ahinoi, ci fa (ancora) schifo.

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