“Se dovessi dare un consiglio ai giovani? Lanciatevi, provate, sperimentate, fallite. Vedo tantissimi ragazzi che hanno paura di agire, attendendo il momento giusto. Aspettano di dire ai genitori che non vogliono più frequentare l’università, che vogliono fare altro nella vita. E invece il momento giusto non arriverà mai se non si rischia”. Angelo Laudati ha 37 anni e viene da Roma. Dopo aver lasciato il suo posto nella multinazionale in cui lavorava, ha fondato un’azienda tutta sua. Laurea in comunicazione di impresa alla Sapienza, è cresciuto in una famiglia di giuristi, ma la sua passione è sempre stata un’altra: “Avevo 5 anni quando mio padre mi regalò il primo computer, un 286 della IBM. Da lì viene la mia passione per la tecnologia: passavo ore e ore a smontare e rimontare”.

Nel 2009 Angelo inizia a lavorare come dipendente per alcune web agency: a 25 anni entra in un’azienda specializzata in noleggio auto e furgoni. Nel 2016, di fronte alla possibilità di diventare Digital Marketing Manager per l’Europa, (“una proposta allettante”, ricorda) decide di cambiare vita e fondare la sua impresa digitale. “Non riuscivo ad intravedere in quel nuovo ruolo una possibilità di crescita. Era arrivato il momento di creare qualcosa di mio, qualcosa di diverso”. Nel 2018, così, nasce Bitmetrica, una web agency che supporta la crescita di Pmi e startup con servizi digitali.

La pandemia ha inciso “meno di quanto mi aspettassi” spiega Angelo, visto che tutti lavoravano già da prima in remoto. Anzi, puntando tutto sul digitale si è registrato un incremento di interesse. L’azienda conta un team di 9 lavoratori (divisi tra l’Italia e il Brasile): ognuno di loro lavora in smart working, per obiettivi e in totale autonomia. Un’iniziativa che si inserisce all’interno del fenomeno conosciuto come ‘Yolo Economy’, acronimo di You Only Live Once, e cioè, si vive una volta sola. Una scelta volontaria, una moderna visione epicurea, diffusa tra i millennials nella società post covid, descritta da Kevin Roose in un articolo pubblicato nella primavera 2021 sul New York Times.

La prima cosa da fare appena svegli è accendere il cellulare e “controllare tutto quello che è successo mentre dormivo”, racconta Angelo. “Lavoro duramente fino a pranzo, e poi fino alle 20. Se sono fortunato e ho un buco nel pomeriggio cerco di fare una passeggiata: mi aiuta a distrarmi e avere pensieri più lucidi”. Lavorare da remoto non vuol dire far mancare i rapporti interpersonali, spiega Angelo. “Una volta a settimana ci vediamo online tutti insieme e facciamo colazione, per simulare un incontro alla macchinetta del caffè, come se ci vedessimo di persona tutti quanti: nascono sempre idee interessanti”.

“L’università ti insegna a pensare, ma poco a risolvere i problemi concreti”, aggiunge l’imprenditore campano. “Insegno da molti anni all’interno degli atenei, credo ci sia un gap tra l’università e il mondo del lavoro. Ho avuto stagisti e collaboratori con votazioni da 110 e lode ma che avevano poca esperienza e ho sempre preferito al titolo di studio altisonante, la capacità e l’esperienza di persone che sanno già fare qualcosa”. Perché allora il numero di “cervelli” che lasciano il Paese è ancora così alto? “Molti direbbero per i salari, mentre io credo che sia un problema di riconoscimento del loro operato. Sicuramente la situazione salari in Italia è molto bassa se comparata a quella di altri Paesi, ma credo che ci sia dell’altro: se hai delle persone valide, le stimi, le apprezzi e dai loro sempre più responsabilità”.

Come immaginarsi tra 10 anni? Meglio fare ragionamenti a breve termine, suggerisce. Con un moto di orgoglio Angelo dice di voler continuare a lavorare in Italia, anche se “devo dire che non aiuta gli imprenditori. La burocrazia, ma soprattutto la tassazione, sono davvero difficili da sostenere. Per aziende come la mia da remoto – aggiunge –, ci sono pochi bandi ai quali partecipare, mentre vengono avvantaggiate le aziende con tanti dipendenti”. Se la situazione dovesse diventare insostenibile, si potrebbe valutare di migrare all’estero, per diventare un “nomade digitale”. Eppure, conclude, “credo che l’Italia possa ancora dare tanto”.

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