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D’Alema e la fragilità cronica della sinistra coi suoi leader

D’Alema e la fragilità cronica della sinistra coi suoi leader
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di Alessandro Pezzini

Il rumore generato dalle parole di Massimo D’Alema ha mostrato la fragilità cronica della sinistra italiana, ovvero il rapporto con i suoi stessi leader carismatici. E D’Alema non ha parlato dal palco di una piazza gremita di persone pronte a spaccare il mondo, eh. Ha parlato negli auguri natalizi via web di Articolo Uno. Per capirci: non so se tutti gli iscritti ad Articolo Uno stessero aspettando con trepidante emozione questo messaggio.

Eppure, qualsiasi sia il mezzo utilizzato e qualunque sia la portata effettiva delle parole di un leader “X”, la nostra sinistra garantisce costantemente una cassa di risonanza enorme, in grado di far risuonare la sua stessa ansia nelle menti di ogni elettore, simpatizzante o attivista che sia.

D’Alema ha parlato della malattia del renzismo all’interno del Pd, probabilmente ben consapevole che diversi ex renziani (anche stimati ministri) militino ancora tra le file Dem. Ed è subito sera. Gli ex renziani si agitano e chiedono se sia o meno il caso di andare a congresso per capire se si tratti di pioggia o temporale, se il ritorno di D’Alema significhi tornare un po’ dalemiani, potersi serenamente dichiarare bersaniani e quindi discutere a viso aperto con gli ex renziani e se dover iniziare ad ascoltare Roberto Speranza non in quanto Ministro collaborativissimo e naturale alleato ma in quanto a costola (e quindi corrente) del proprio partito.

Letta smentisce. Tranquillizza. Quasi a dire, proprio lui, “state sereni”. Friendzona D’Alema ma lui è… D’Alema. E la sinistra ha un problema con i suoi grandi leader. Iniziò quando Achille Occhetto tolse la parola “comunista” dal partito e lo rese “democratico”, precedendo proprio D’Alema alla segreteria della nuova realtà.

Continuò quando i Padri Fondatori dell’attuale Pd accusarono le prime difficoltà (o forse erano cambiati i tempi) e questo portò, come in un domino, all’ascesa di Renzi, schietto e giovane sindaco, volto di un nuovo modo di fare politica a sinistra. Fu così quando renziano era pressoché tutto il Pd, in quanto il rottamatore liberò la casa dagli spiriti infestanti. Tutti d’accordo. Fu una liberazione finché Renzi, raccolto il testimone del partito da Bersani – tramite Epifani – e del Paese da Letta, assunse una leadership tanto ingombrante da far rimpiangere il passato. È allora che Renzi divenne brutto.

Gli diedero fiducia ma, appena tornati al 20% circa (dimensione in verità ancora attuale per il Pd), fu lo stesso Renzi ad abbandonare la nave per costruirne una propria, dichiaratamente centrista.
E fu così anche quando voci di corridoio iniziarono ad associare l’ombra di Prodi accanto a quella delle Sardine, portando il Pd quasi a far proprie le loro battaglie (culminate per ora nell’elezione di Santori a Consigliere comunale di Bologna, con la speranza di noi tutti di vedere realizzarsi lo stadio di frisbee).

Poi, per la legge del contrappasso, dopo la fase Martina arrivò Zingaretti di cui alcuna anima viva possa dire male in quanto accogliente, sorridente, dialogante e dolce. Ma poi Zingaretti lasciò commosso e si tornò a Letta che ha vita più facile perché ha da subito parlato chiaro in un momento di difficoltà, dicendo che sarebbe stato rigido e che avrebbe preso decisioni importanti. Cosa accadrà in futuro, se davvero D’Alema conserva ancora questo peso specifico, non è dato sapere.

Forse, il bello del centro-sinistra è proprio quello di essere in costante evoluzione strutturale ma, così facendo, potrà mai nascere un nuovo Gramsci, un nuovo Pertini, un nuovo Berlinguer? Potrà mai esserci un nuovo D’Alema se ancora D’Alema non è invecchiato?

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