Fine d’anno col botto, di Omicron s’intende. E per non farvi mancare nulla, invece delle sponsorizzatissime letture di viaggi per forzati da quasi lockdown, conviene approfittare di questi ultimi giorni di festa per recuperare uno dei volumetti forse più agili di un filosofo da best-seller, il tedesco Peter Sloterdijk.

Nella traduzione italiana (curata da Gianluca Bonaiuti per le edizioni Meltemi, nel 2006) il saggio s’intitola Terrore nell’aria. La tesi di fondo che Sloterdijk sviluppa con questa analisi individua uno dei tratti distintivi dell’umanità nel XX secolo nel salto di qualità di aver portato l’uccisione dei nemici sul piano dell’aria e dell’atmosfera. Come alcune grandi battaglie della Prima Guerra Mondiale sanciscono, nell’Occidente industrializzato non si punta più a colpire con ogni mezzo direttamente il corpo dei nemici, ma attraverso l’ambiente: il terrore fa così un salto di qualità ideale (post-hegeliano, come nota Sloterdijk), e da quel momento vola, appunto, nell’aria.

Ora, che il Covid-19 sia nato o meno in un laboratorio militare cinese o che si sia sviluppato autonomamente per via del moltiplicarsi della catena delle contaminazioni in epoca globalizzata, questo virus che di fatto sta sancendo la fine dell’epoca post-moderna si pone oggi, con le sue varianti presenti e s’immagina future, come elemento fondamentale della paura e dell’inibizione dei corpi su scala mondiale, ed è proprio quanto di più ‘aereo’ sia immaginabile, decisamente, anche da questo punto di vista.

In questo suo saggio Sloterdijk, tra l’altro, presenta alcune riflessioni sulla particolarità dello sterminio nazista degli ebrei, praticato appunto perlopiù attraverso un gas, lo Zyklon B, nato come insetticida a base di acido cianidrico. Il filosofo ricorda che proprio la metafora della lotta contro i parassiti era stata così tanto spesa nella propaganda antisemita. In una breve nota, tra l’altro, Sloterdijk si sofferma sull’etimologia di Entwesung, ‘disinfestazione’ in tedesco, laddove la radice Wessen significa essere, essenza, creatura, e fa perciò conservare al termine una profonda ambiguità nella misura in cui segnala la negazione o cancellazione, appunto, dell’essere.

Seguendo il filo etimologico, nella nostra lingua viceversa la parola disinfestazione si richiama, più che all’essere della gemella tedesca, all’apparire, tratto distintivo che fu appunto del post-moderno maturo: dopo il prefisso separativo negativo ‘dis’ e la preposizione ‘in’, riconduce infatti all’elemento latino di origine incerta ‘-festu(m)’, comune a manifestazione, che deriva dal participio passato di un verbo colto che sta letteralmente per ‘preso’ (così suggerisce la voce relativa del Dizionario di Cortellazzo-Zoli per Zanichelli).

Fermiamo qui il ricamo di parole, non senza segnalare anche come lettura di supporto, a proposito di mascherine e di volti, di apparire e di essere, di vite vere e di vite burocratiche, che alla fine della magica novella gogoliana del ‘Naso’ il protagonista, dopo la vana e ansiogena rincorsa al tratto distintivo perduto, si risveglia una mattina e ritrova al proprio posto la parte prominente tra le due guance. “Ciò avvenne il 7 aprile”, chiosa il narratore.

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