Arriverà a gennaio la risposta della perizia che potrebbe riportare il caso Moby Prince nelle aule di un tribunale penale italiano per l’unico reato non prescrivibile: la strage. Nelle prossime settimane infatti, due scatole contenenti 25 buste di reperti prelevati nel novembre 1991 dal traghetto Moby Prince, arriveranno sul tavolo del Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche (RIS) di Roma. Rappresentano le prove utilizzate dall’allora consulente della Procura di Livorno, Alessandro Massari, per definire la presenza di esplosivi sul traghetto. Esplosivi che proprio secondo Massari si trovavano in un punto della nave – il vano eliche di prua – indubbiamente interessato da un’esplosione. Massari riscontrò nel locale ben cinque sostanze tipicamente usate per ordigni “ad uso civile” note come gelatine o dinamiti (nitrato di ammonio; etilenglicole-dinitrato; nitroglicerina; DNT e TNT) e due sostanze (pentrite e T4) presenti invece in esplosivi militari o plastici da demolizione, tra i quali il semtex-H con cui fu segnata la stagione stragista italiana del triennio 1992-1994.

A distanza di quasi trentuno anni da quella perizia, tre consulenti d’eccezione analizzeranno i materiali recuperati da Massari: il Comandante della sezione chimica, esplosivi e infiammabili del R.I.S. di Roma, il colonnello Adolfo Gregori, l’ingegnere esplosivista Gianni Bresciani dell’agenzia balistica italiana e il geominerario esplosivista Danilo Coppe, attuale presidente dell’Istituto ricerche esplosivistiche di Parma. L’inedito pool unisce le due attività di indagine dello Stato attualmente in corso su questa vicenda costata la vita a 140 persone. Gregori e Bresciani opereranno infatti per conto della Commissione d’inchiesta parlamentare sul caso, attiva alla Camera dal maggio 2021, mentre Coppe ha ricevuto l’incarico a metà dicembre dal procuratore aggiunto di Firenze, Gabriele Mazzotta, su mandato della Direzione Distrettuale Antimafia.

La perizia finale sulla bomba – Raggiunto da ilfattoquotidiano.it Coppe puntualizza di “poter riferire poco sull’indagine” ma chiarisce che “si ventilano due ipotesi da confermare o smentire: l’esplosione come causa dell’incidente o il trasporto di esplosivi di matrice mafiosa, poi bruciati in quel locale. In entrambi i casi la competenza a livello penale è della DDA di Firenze”. Sul suo lavoro peritale l’esplosivista dichiara comunque di “aver già ricevuto e letto le perizie realizzate in passato sul caso, che vanno arricchite dei corredi fotografici sui danni rinvenuti nel locale del traghetto dove è avvenuta l’esplosione”.

Proprio quei danni in passato furono tuttavia la prova utilizzata dall’Istituto di Chimica e Esplosivi della Marina Militare (Mariperman) per smontare la tesi di Massari sulla detonazione di esplosivi solidi nel locale eliche di prua del Moby Prince, interessato, secondo gli esperti dell’Istituto, da una deflagrazione da gas che di fatto avrebbe bruciato gli esplosivi rinvenuti dal consulente della Procura e attribuiti alla mafia da un pregiudicato non identificato nel 1994. La risposta sulla compatibilità tra i danni rilevati nel locale e una detonazione da esplosivo solido ad uso civile, tecnicamente definito a “basso potenziale”, arriverà dai calcoli dell’energia sprigionata nel locale dall’esplosione – a oggi mai effettuati – di competenza dell’ingegner Bresciani. Mentre per quanto riguarda le analisi previste a gennaio al RIS di Roma, Coppe spiega al Fatto.it che “una parte di questi materiali raccolti all’epoca è ancora da analizzare. Starà a me valutare insieme al resto dei colleghi in che modo le nuove tecnologie potrebbero rilevare o meno qualcosa. Lo sapremo quando il materiale arriverà nelle mani del colonnello Gregori, con cui ricostruiremo la squadra già operativa per l’ultimo processo sulla strage di Bologna”.

Il giallo – La notizia dell’analizzabilità dei reperti contenuti nelle 25 buste apre però un “giallo” relativo alla Commissione d’inchiesta del Senato che, nel gennaio 2018, ha comunque ribaltato il racconto della vicenda. La Commissione chiese infatti proprio al RIS di Roma, allora guidato dal Generale di brigata Luigi Ripani, di analizzare quegli stessi reperti per determinare se “a bordo del traghetto avvenne un’esplosione diversa da quella documentata dalla perizia Mariperman”. Il 29 luglio 2017 le due scatole contenenti i reperti arrivarono a Roma direttamente dal Tribunale di Livorno, ma i plichi non furono neanche aperti. Nella relazione di consegna l’équipe guidata da Ripani giustificò la mancata analisi perché “dalla lettura della relazione tecnica del dottor Massari risulta che tutti i reperti, attualmente a disposizione, furono, all’epoca dei fatti, lavati con ‘acetone’ al fine di estrarne e concentrarne le eventuali tracce di esplosivo presenti”. E la procedura – scrisse all’epoca l’équipe guidata da Ripani – “rimuove dai reperti eventuali tracce presenti, rendendoli non più utili ad una ulteriore verifica analitica”. A distanza di quattro anni quei reperti torneranno però al RIS di Roma dove stavolta saranno analizzati dall’équipe del colonnello Gregori. Perché oggi sì e nel 2017 no? A quanto appreso da ilfattoquotidiano.it, nelle scatole consegnate nel 2017 e nuovamente riportate oggi sul tavolo del RIS di Roma non ci sono mai stati i reperti lavati con acetone da Massari, ma i cosiddetti contro-campioni prelevati dal consulente nelle stesse zone del traghetto proprio per consentire ulteriori verifiche. Verifiche che però, quattro anni fa, non furono portate a termine.

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