di Claudia De Martino

Spesso quando si parla della società palestinese, ci si focalizza sulla deprimente situazione politica in stallo ormai dal 2009, oppure su sterili attacchi terroristici “all’arma bianca” perpetrati da giovani palestinesi tanto privi di una prospettiva politica che di una generica speranza di cambiamento. L’ossessione dei media per il conflitto israelo-palestinese è evidente dalla copertura di un solo omicidio a Gerusalemme come un attentato di interesse internazionale (e non un incidente di ordine pubblico), mentre altri conflitti molto più letali, come le guerre civili in corso in Etiopia e Yemen, vengono ignorati ogni giorno. Tuttavia, quello di cui non si parla abbastanza è del lato luminoso della resistenza palestinese: una società che non accetta di essere cancellata dalla storia, né di sprofondare nel nichilismo, ma che elabora costantemente forme di resistenza collettiva.

Quello di cui non si parla mai, in altri termini, sono i bisogni, i progetti e le aspirazioni dei giovani palestinesi che vanno al di là della sopravvivenza, che bramano un contatto culturale con quella dimensione globale da cui l’occupazione israeliana vorrebbe segregarli, cercando di individuare una terza via tra l’accettazione passiva della colonizzazione e la rivolta militare sterile e fine a sé stessa, e tra l’interiorizzazione delle immutabili regole patriarcali delle società arabe e le possibilità aperte dal futuro. La società palestinese, come quelle di molti Paesi arabi, è infatti prevalentemente giovane: secondo i dati forniti dall’Ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs), il 30% degli oltre 5 milioni di Palestinesi di Cisgiordania e Gaza ha un’età compresa tra i quindici e i ventinove anni. Questa nuova generazione, numericamente influente, è però completamente marginalizzata sulla scena pubblica e nel mondo del lavoro, con un tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 41.1% e che dolorosamente riguarda soprattutto i laureati.

È proprio perché molti giovani palestinesi non hanno il permesso di viaggiare ed esplorare liberamente il mondo come i loro coetanei che essi hanno ancora più bisogno che idee e influssi globali arrivino loro dall’estero attraverso un’ampia e diversificata programmazione culturale. Quella locale, infatti, così come promossa dal teatro nazionale palestinese el-Hakawati di Gerusalemme est, è ancorata a modelli tradizionali – come la danza palestinese, il teatro classico europeo e il folklore popolare – mentre, sempre di più, grazie alla cooperazione culturale promossa da alcuni consolati europei, vengono alimentate nuove forme di sperimentazione teatrale. Queste produzioni, oltre a fornire ai giovani un impulso a esprimersi a livello creativo, offrono loro uno spazio sicuro per costruire una comunità che resista in maniera costruttiva e coesa all’occupazione, senza timore di un confronto critico interno alla società palestinese.

Ne è un esempio il Freedom Theatre (Masrah al-Hurriyya), inaugurato nel 2006 nel campo profughi di Jenin, ispirato all’opera dell’ebrea Arna Mer Khamis, che durante la prima Intifida aveva aperto un teatro per bambini nello stesso campo e che è madre di quel Juliano Mer Khamis che ne sarebbe stato il suo primo direttore. Questo teatro, finanziato – tra gli altri – dal governo svedese, costituisce oggi una delle tante istituzioni che si è assunta il compito – lavorando a fianco di organizzazioni come l’Ashtar Theatre di Ramallah e l’al-Rowwad Cultural and Theatre Training Center di Betlemme – di soddisfare la fame di cultura delle comunità locali, mettendo in scena produzioni che spaziano da Alice nel Paese della meraviglie di Lewis Carroll a opere di giganti della letteratura palestinese come Ghassan Kanafani.

In un quadro così privo di sbocchi come la situazione corrente, che affligge tutti ma in particolare i giovani, il lavoro di queste organizzazioni teatrali è fondamentale. Lo staff di al-Rowwad, in Cisgiordania, ad esempio, lavora con i giovani del Campo Aida per creare quella che chiamano la “bella resistenza”: scegliendo ogni giorno di promuovere cultura, arte e istruzione per offrire modelli alternativi e non violenti di risposta all’oppressione quotidiana dell’occupazione israeliana e all’inerzia dell’Autorità Nazionale Palestinese, sua complice. Una delle attività offerte ai bambini del Campo Aida è quella della formazione professionale, con l’opportunità per molti giovani di essere assunti da compagnie teatrali dopo essersi esibiti amatorialmente.

La strada è tutta in salita e non sono pochi gli attacchi mediatici e fisici contro l’attività critica e di testimonianza condotta da questi centri culturali: ne è un esempio quello avvenuto qualche anno fa al teatro e centro culturale Said al-Mishal a Gaza, raso al suolo da un raid aereo israeliano.

La società palestinese, però, non si lascia irretire e reagisce cercando di intensificare le proprie collaborazioni con il mondo esterno: proprio in questi giorni, ad esempio, il consolato generale francese a Gerusalemme ha sponsorizzato una tournée franco-palestinese in giro per i villaggi palestinesi mettendo in scena la commedia classica di Aristofane Le donne all’assemblea, rivisitandola, però, in chiave contemporanea. La commedia narra di un gruppo di donne di Atene che, scontente della corruzione nella gestione degli affari pubblici dei loro uomini, rubano i vestiti dei loro mariti e li sostituiscono nell’assemblea della polis. Sul palco, durante la prima dello spettacolo a Gerusalemme Est, le attrici palestinesi Iman, Fatima, Shadeen, Amina e Mays indossano abiti maschili e cravatte, barbe finte, cappelli e berretti, sormontando un tabù ancestrale della società palestinese, dove i ruoli tra i generi sono invalicabili e ben distinti.

Aldilà del canovaccio teatrale, è facilmente intuibile come la messa in scena di una commedia di questo tipo possa avere un valore simbolico fondamentale: le donne di Aristofane di 2.500 anni fa, così come le donne palestinesi di oggi, hanno un ruolo marginale nella loro società e non possono prendere mai ufficialmente la parola né ricoprire incarichi istituzionali di primo piano, e non perché non siano in grado di farlo, ma perché regole patriarcali e gerarchie sociali millenarie non glielo consentono. Il potere sovversivo della cultura è tutto qui: esorcizzare le paure, rivoluzionare le tradizioni, per ipotizzare nuovi modelli di governance persino sotto un regime di occupazione permanente. Proprio per questo motivo la cultura fa paura: un teatro pensato per i giovani che aspirano ad avere un loro ruolo nella società, un teatro pensato per le donne non solo per intrattenere e divertire, ma per far riflettere e criticare la società palestinese dall’interno, attiva e valorizza le forze più vive della società palestinese, rimettendo in discussione i ruoli tradizionali su cui essa poggia.

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