Un vecchio emigrato italiano in Argentina riceve una telefonata da Napoli: la madre è morta. E’ cieco e il viaggio non sarà facile, ma decide di partire lo stesso per “rivedere” la madre. Ma cosa rivedrà? La trama di Santa Lucia, opera prima di Marco Chiappetta presentata in questi giorni al Torino Film Festival e in uscita a febbraio, si può riassumere in due righe. E, secondo il vecchio adagio che circolava un tempo tra i produttori, se un soggetto si riassume in poche righe vuol dire che è buono.

Roberto, questo è il nome del cieco, ha un fratello, Lorenzo, che non vede da quarant’anni, da quando ha lasciato Napoli. Lo ritrova all’aeroporto e con lui riscopre una città che si annuncia misteriosa e spiazzante. Una Napoli deserta e silenziosa, dove i palloni rotolano lungo le scalinate che scendono dalla collina senza incontrare ostacoli, dove i cimiteri sono ordinati e regolari, dove anche il mare è rispettoso di quell’ordine profondo e segreto.

La prima immagine che la città restituisce è quella di uno sguardo dal basso: cime dei palazzi e cime degli alberi, in una prospettiva quasi infantile. E infatti Roberto è forse ancora il bambino che ha vissuto quella Napoli. O forse è l’adulto che se ne è sentito tradito. O forse ancora è l’uomo maturo che ha continuato a sognare Napoli, in un perenne viaggio della memoria. Il “nostos” e la memoria, il ritorno verso un impossibile e tuttavia intensissimo passato, ma stando bene nel presente: questo è in fin dei conti il tema del film. Il quale ha la capacità di restituire il difficile viaggio del vecchio cieco con soluzioni eleganti, raramente riscontrate in un’opera prima.

Per esempio quando Roberto – qui un ottimo e asciuttissimo Renato Carpentieri – entra nella casa della madre morta, la macchina mostra l’interno di questa casa spaziosa con un unico movimento avvolgente che percorre le diverse stanze e le diverse età. Da ognuna emergono i vari personaggi di questo universo memoriale: i due fratelli bambini, Lorenzo adulto che suona la chitarra, la madre morta ma giovane.

Le relazioni tra le diverse età dei personaggi restano sfumate, ma altre immagini sono ben chiare nel ricordo di Roberto. “La geografia di questa casa ce l’ho in testa centimetro per centimetro”, afferma lui emblematicamente. In effetti è proprio nella testa di Roberto che si svolge il viaggio nei meandri del passato, nelle sue stratificazioni felici e dolorose: una ragazza che compare e ricompare e che è stata determinante nella vita di Roberto, le gelosie tra i due fratelli, il destino che li ha separati ma anche in qualche modo uniti. Lorenzo – qui Andrea Renzi, efficace e misurato – è l’accompagnatore discreto e arrovellato del percorso del fratello, e forse, come si scoprirà, qualcosa di più, una chiave di volta di tutta la storia.

In fin dei conti il paradosso di Santa Lucia è che proprio il cieco vede tutti e tutto: non a caso la madre gli aveva regalato l’occhio di Santa Lucia che salva la vista. Da cieco Roberto dà vita a un universo di personaggi e di luoghi che affollano la sua mente da quando lui se ne è andato. Perché gli occhi possono essere bugiardi come le parole, come dice lui stesso, e vedere non è un esercizio fisiologico dell’occhio, ma un esercizio spirituale dell’anima. E’ questo anche il segreto del cinema, che spesso o sempre ci fa vedere mondi volatili, realtà invisibili all’occhio affaticato della vita quotidiana.

Saper “vedere” le immagini, saperle costruire, farle affiorare, “sentirle” è il grande gioco del cinema.

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