Avevamo una grossa radio Siemens, di quelle “da salotto”, molto grossa e potente, dentro un mobile con un giradischi Polydor che si estraeva grazie ad un cassetto mobile, posto sopra l’apparecchio radiofonico. Li conservo ancora, al mare…

Dall’altra parte del salone c’era un televisore grosso come un armadio: mio padre era un fanatico delle novità “tecnologiche”, quelle dei primi anni Cinquanta erano occasione per invitare gli amici, ascoltare musica, vedere i primi programmi tv. Ma da qualche giorno, in quell’autunno del 1956, c’era una certa eccitazione a casa. La radio era infatti sempre accesa, i miei genitori si erano sintonizzati sulle frequenze di Radio libera Kossuth, che trasmetteva dalla notte del 23 ottobre notiziari da Budapest anche in italiano, la sera i loro amici venivano da noi e discutevano animatamente, mentre io e mio fratello cercavamo di capire cosa stesse succedendo.

Grosso modo avevamo saputo così che la capitale ungherese si era ribellata al regime comunista, che 300mila persone avevano manifestato a Budapest reclamando la libertà, che la protesta si era diffusa con la forza di un ciclone in tutto il Paese, che c’erano stati un sacco di scontri, che studenti, operai, scienziati, intellettuali, impiegati avevano manifestato insieme contro il governo comunista e contro i sovietici, che avevano abbattuto la gigantesca statua di Stalin, simbolo della repressione sovietica: le fotografie dell’insurrezione campeggiavano sui quotidiani che mio padre comprava, in quei giorni molto più del solito, e che noi ragazzini leggevamo avidamente.

Tra le più infervorate era mia nonna Sabina, perché frequentava parecchi esuli ungheresi, un paio di loro avevano aperto un ristorante dalle parti di via Montenapoleone: erano fieri anticomunisti, la nonna spiegava che il regime di Matyas Rakosi – questo nome mi rimarrà sempre impresso perché lo ripeteva con rabbia – era uno dei più cattivi, capo di un governo che sbatteva gli oppositori in prigione o li giustiziava, che aveva imprigionato dal 1948 – il mio anno di nascita – addirittura il cardinale Joszef Mindszenty tenace oppositore del regime. Gli amici di nonna Sabina si erano salvati per miracolo scappando prima in Jugoslavia e poi arrivando a Trieste e da lì a Milano, e raccontavano i misfatti dell’Avh, l’Autorità per la Sicurezza Pubblica, come ufficialmente veniva chiamata la famigerata polizia segreta ungherese.

Ora la rivolta aveva acceso il loro entusiasmo, e le loro speranze. Radio Kossuth libera informava il mondo che il nuovo primo ministro era Imre Nagy, un “revisionista” (questa parola era al centro delle discussioni: allora io avevo otto anni, frequentavo la scuola Montessori di via Milazzo, la nostra maestra Bernarda de Bernardis ci aveva spiegato che in Ungheria il popolo si era ribellato contro l’oppressione comunista, che voleva essere indipendente e non schiavo di Mosca, che Nagy era una persona perbene, un comunista ma “buono”, tollerante, che a suo tempo aveva sfidato il potere di Rakosi ed era stato cacciato dal governo e dal partito comunista), insomma, era uno che voleva attuare riforme per “lo sviluppo della democrazia”, come ci ripetevano i nostri genitori nel tentativo di riassumere la situazione.

Nagy voleva un “socialismo che non schiacciasse il popolo ma lo aiutasse a migliorarne le condizioni”, incalzava nonna Sabina, i comunisti avevano depredato il paese, un tempo l’Ungheria era ricca, ora era stremata, la povertà e l’ingiustizia avevano ridotto la popolazione alla sopravvivenza, i sovietici le sottraevano un quinto del reddito annuo, gli facevano scontare l’alleanza con i nazisti, i redditi – dicevano – erano più bassi di quelli di prima della guerra, una situazione insostenibile.

Per sostenere la lotta dei patrioti ungheresi che mia nonna (era ancora abbastanza giovane, si era sposata a quindici anni!) chiamava “l’eroica rivolta dei ragazzi di Buda”, i suoi amici ristoratori avevano organizzato un’asta, mettendo in vendita disegni, quadri, oggetti d’antiquariato. Lei acquistò quattro opere molto belle, che conservo religiosamente e che rappresentano la puszta, scene di cavalli, paesaggi, un villaggio…

Ma l’aria di festa durò poco. Il primo di novembre, papà Pierluigi ci disse, sconvolto, che i sovietici avevano mobilitato l’Armata Rossa, che avrebbero invaso l’Ungheria, anzi, che già avevano cominciato a bombardarla. Quella sera i nostri rimasero alzati fino a tardi, mentre Radio Kossuth aggiornava la situazione e le voci dei radiocronisti rimbalzavano nel salone di casa sempre più agitate, nervose, spaventate. In francese. In tedesco. In inglese. In italiano. Il compleanno di mia nonna cadeva proprio nel giorno dei Morti: per la prima volta lei non lo festeggiò. Non volle. Era triste. Abbattuta. Gli amici ungheresi le avevano riferito che Nagy aveva chiesto aiuto all’Occidente. “Cioè a noi?”, chiesi alla nonna. “Sì, al mondo libero. Ma i governanti del mondo libero non stanno facendo nulla, perché temono di far scoppiare una nuova guerra mondiale”.

C’era, aggiunse la nonna, una grave crisi per il Canale di Suez, certo, l’avevamo letto anche noi, i titoli dei giornali, i notiziari non facevano altro che parlarne, l’Egitto di Nasser, i francesi e gli inglesi che si opponevano alla nazionalizzazione del Canale… “Vedi, quando tu compivi otto anni, il 27 ottobre, gli americani hanno dichiarato che sarebbero stati contrari ad ogni intervento sovietico in Ungheria, però sono state solo parole. A Budapest si aspettavano qualcosa di più che una dichiarazione. Temono il peggio. Stanno costruendo barricate, si stanno preparando a fronteggiare il nemico sovietico, ma sono male armati, le loro milizie non sono addestrate per battersi contro un esercito potentissimo. Mi hanno anche detto che l’Unione Sovietica ha già messo a punto il piano d’invasione”.

“Come Davide contro Golia?”, dissi allora, “purtroppo il Davide ungherese non ha alcuna speranza di battere il Golia sovietico”, ribatté lei, “per questo oggi non voglio festeggiare il mio compleanno. Potessi, sarei lì a battermi con i patrioti ungheresi”.

Fu davvero un fragile sogno di libertà, l’insurrezione dei fieri “ragazzi di Buda”. Nagy aveva proclamato la neutralità della “nuova” Ungheria, e quindi di conseguenza aveva dichiarato di abbandonare il Patto di Varsavia. Ciò che Mosca non poteva tollerare. Non solo: nel suo gabinetto aveva mantenuto appena tre ministri comunisti. E questo era davvero troppo per l’Urss. Poteva innescare un effetto domino, il 21 ottobre in Polonia Wladislaw Gomulka, pure lui chiamato il “revisionista” era tornato al potere dopo una lunga e dura prova di forza, costata molte vittime, contro i sovietici, ed era diventato il capo del Partito Operaio Unificato Polacco. Ed era stata motivata dalla solidarietà coi lavoratori polacchi e con Gomulka, da poco riabilitato e fautore di riforme, la grande manifestazione ungherese del 23 ottobre. Una scintilla pericolosa per Mosca, in un contesto internazionale scosso dalle denunce di Kruscev sui crimini staliniani, dalla crisi di Suez, dalle proteste in Romania (a Cluj), in Polonia, i Cecoslovacchia (Bratislava).

Quel 23 ottobre, avevano entusiasticamente ricordato a Radio Kossuth libera (la radio nazionale era stata occupata), il corteo aveva raggiunto il Parlamento, reclamando un discorso dell’ex premier Imre Nagy, quello scalzato da Rakosi, e il Comitato Centrale del partito comunista ungherese, per arginare la ribellione, lo aveva richiamato al potere, nominando però Janos Kadar come segretario, un uomo non insensibile alle direttive di Mosca. Non a caso, oltre a queste due mosse, viene invocato anche l’aiuto dell’Armata Rossa.

La mobilitazione del 23 ottobre era cominciata con l’iniziativa degli studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest che si erano ritrovati attorno alla statua di Sandor Petofi, il poeta che secondo la tradizione storica aveva scatenato la rivoluzione del 1848 con la lettura dei suoi versi patriottici e al cui nome era stato intitolato un gruppo interno al partito comunista favorevole alla politica riformista dell’ex primo ministro Nagy. Il quale non perse tempo. Sciolse la polizia segreta, liberò il cardinale Mindszenty, rispose allo sciopero generale consentendo la formazione di consigli operai (in gran parte anarco-sindacalisti) nelle fabbriche. I bonzi del partito comunista fedeli alla linea stalinista vennero cacciati, i più recalcitranti sotto la minaccia delle armi.

Mosca cerca di reagire con cautela, inizialmente. Il Comitato Centrale, infatti, è spaccato tra i fautori del pugno di ferro (capeggiato da Molotov) e chi propende per non intervenire subito (tra costoro, Kruscev). Vengono inviati due membri del Comitato Centrale del Pcus, l’abile Mikoyan e il potente Suslov, per mediare con Nagy ma soprattutto con Kadar. Però, l’Armata Rossa mobilita le truppe in terra magiara. La spada di Damocle sovietica è pronta a decapitare la rivolta.
Non scorderò mai la voce disperata che mi svegliò all’alba del 4 novembre. I miei avevano seguito i notiziari radio tutta la notte. C’era stato un comunicato di Nagy. Quando venne riportato in italiano, la voce era rotta dall’emozione, sentivamo già in sottofondo gli spari, i colpi di cannone, le urla che venivano dalle strade di Budapest: “Aiutateci! I sovietici ci stanno attaccando! Aiutateci! Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico dell’Ungheria”, ripeteva l’appello disperato di Imre Nagy, “le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico tutto questo che viene fatto contro il nostro popolo al mondo intero”.

Noi eravamo il mondo intero. Abbiamo ascoltato. Abbiamo lasciato che 4mila carri armati con la stella rosa dell’Unione Sovietica e 200mila soldati dell’Armata Rossa distruggessero l’illusione della libertà, la chimera della democrazia, il desiderio della giustizia. L’attacco dei sovietici è spaventoso. I difensori magiari non hanno scampo. Si battono con vecchie armi, con molotov, marciapiede dopo marciapiede, resistono stoicamente cinque giorni, ma i soldati che si erano schierati con Nagy sono disorganizzati e sono sbaragliati. Operai e studenti, coordinati dai consigli di fabbrica, si battono stoicamente, ma il 10 novembre la resistenza è spacciata. Sulle strade di Budapest si contano 2600 cadaveri, i patrioti hanno ucciso 700 soldati russi.

Duecentomila ungheresi riescono a scappare e chiedono asilo in Occidente. Nagy si rifugia nell’ambasciata jugoslava. Al suo posto si insedia Kadar. Ci resterà sino al 1988. Durante i giorni dell’attacco, è stato prelevato dai sovietici e portato a Mosca. O collabora o muore. Con un sotterfugio, qualche settimana dopo, Nagy è catturato e deportato in Romania con altri dirigenti politici. Due anni dopo lo condannano a morte. L’impiccano il 16 giugno 1958, col generale Dal Maleter, ministro della Difesa nell’effimero tempo della rivolta. Per decenni la fine di Nagy sarà avvolta nel mistero. Centinaia di ribelli subiscono la stessa sorte, decine di migliaia finiscono in galera. Uno dei primi a essere giustiziato è un ragazzo di diciotto anni. Si chiama Peter Mansfeld. Colpevole di essere stato un “controrivoluzionario”.

Mezzo secolo dopo sono andato a Budapest, per le celebrazioni della rivolta. Sulla facciata del palazzo che ospitava Radio Kossuth libera si vedevano ancora i segni della battaglia. Ho incontrato alcuni superstiti. “Siamo stati un popolo che ha urlato”. Poi, il silenzio. Ascoltavo i loro ricordi. Avevano negli occhi il dolore del mondo. Un mondo che li aveva sacrificati. Certe ferite non guariscono mai.

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