Sembra una sfida l’idea di mettere in mostra l’opera lirica. Una sfida perché l’opera è quanto di meno facile da restituire nella fissità di un documento esposto, fatta com’è di tumulti, di passioni, di conflitti drammatici, di movimenti di masse, di una congerie di sensazioni e di emozioni visive, sonore, sinestesiche. Eppure quella sfida la si è raccolta a Parma con la mostra Opera: il palcoscenico della società, in corso al Palazzo del Governatore fino al 13 gennaio prossimo.

Più che l’opera in sé i curatori Gloria Bianchino e Giuseppe Martini hanno scelto di esporre tutto ciò che sta intorno allo spettacolo-opera, la sua dimensione sociale e anche politica. Andare all’opera è sempre stato prima di tutto un esercizio di esibizione, poi – e insieme – un esercizio di studio degli altri. Attraverso l’opera un’intera società si mette in mostra per ciò che è, per come si percepisce: e questo non soltanto, ovviamente, attraverso il modo in cui gli spettatori si vestono, si comportano e si fanno vedere in quel grande palcoscenico sociale che è il foyer con i suoi riti, ma anche attraverso le forme dello spettacolo, la sua concezione.

Da spettacolo fatto per le corti reali, che all’inizio del XVII secolo pensavano il melodramma come grande vetrina della loro magnificenza, l’opera scopre i teatri pubblici già qualche decennio dopo con la vendita di biglietti, naturalmente non per tutti: è comunque un principio di democratizzazione di questo spettacolo, che giungerà a compimento solo alla fine dell’Ottocento, quando anche le classi più popolari avranno accesso all’opera facendone un veicolo di cultura e di coscienza sociale.

La dimensione politica sta anche in certi contenuti, come nel Fidelio, unica opera di Beethoven letta in chiave rivoluzionaria come vicenda di liberazione dalle ingiustizie della prigionia. E sta nella violenza delle passioni portate in scena e i cui echi si trovano in certa pittura storica ottocentesca carica di gesti da finale di melodramma, come nell’Hayez dei Vespri siciliani o del Papa Urbano II che predica la prima Crociata.

La pittura è anche un prezioso testimone del modo di vivere l’opera da parte degli spettatori. Da un quadro settecentesco sappiamo che durante la rappresentazione si mangia, si beve, si chiacchiera, mentre un secolo più tardi, a fine Ottocento, Federico Zandomeneghi documenta l’intimità leziosa delle spettatrici in un palchetto a teatro.

In tempi più recenti l’opera è stata spesso un’importante cartina di tornasole degli umori politici che circolavano nella società: se Arturo Toscanini poteva usare il suo carisma per denunciare i regimi dittatoriali (restando tra l’altro insensibile a una lettera di elogi firmata nel 1933 dal neocancelliere Hitler che lo avrebbe voluto a Bayreuth), le regie d’opera contemporanee – sottolineano i curatori della mostra, con un pizzico di polemica – hanno talvolta sopraffatto l’esecuzione musicale o l’interpretazione scenica dei cantanti per privilegiare attualizzazioni in chiave politica o letture metaforiche delle vicende narrate. Certo Luchino Visconti, pur artefice di letture molto politiche, non avrebbe agito così di fronte alla Callas, grande interprete delle sue regie.

D’altro lato, più banalmente, la ritualità dell’opera e delle prime è stata spesso al centro di violente contestazioni, di cui il lancio delle uova sulle pellicce delle signore è stato l’emblema tipico, alla Scala e altrove.

Ma socialmente l’opera è stato anche molto altro: fucina di espressioni divenute correnti nel linguaggio comune (“croce e delizia”, “così fan tutte” ecc.), occasione di parodia, terreno di ricerca per tutte le arti, dall’architettura alla moda alla grafica, con i grandi grafici di inizio Novecento – Marcello Dudovich in testa – a inventare elementi di attrazione nei loro manifesti ispirati al liberty. E, a Parma soprattutto, grande collante sociale grazie anche al mito di Giuseppe Verdi, celebrato in mille forme, dai monumenti ai quadri e alle fotografie che lo ritraggono in tutte le pose, dalle pubblicità che ne fanno un’icona alle banconote. Per questo mito divenuto tale già quando era in vita valeva la pena coprire di paglia la strada dove stava morendo per farlo spirare in pace.

Articolo Precedente

Palermo, torna “La macchina dei sogni”. Mimmo Cuticchio mette in scena l’Inferno dantesco con il teatro dei pupi siciliani: “Non sono burattini”

next