E’ costato 6 miliardi e mezzo di euro. E funziona a singhiozzo. La prima pietra fu posta il 14 maggio 2003, ma 18 anni, 4 mesi e tre settimane dopo è ancora un cantiere aperto. Entrerà in attività stabile (forse) nel 2023, ma per dire che possa essere collaudato bisognerà arrivare (forse) a fine 2025. Per farlo funzionare e assicurarne la manutenzione serviranno dai 100 ai 150 milioni di euro all’anno. La strada per la sua realizzazione è stata lastricata di tangenti, con uno dei più rapaci assalti alla diligenza pubblica che si ricordi nel dopoguerra. Questo è il Mose, in attesa che salvi per davvero Venezia dalle acque alte, come non ha fatto nella prima alta marea del 5 ottobre 2021, troppo modesta (105 centimetri sul livello del medio mare) per dare l’ordine di alzare le paratoie in acciaio, ma sufficiente per far sommergere i masegni della Piazza e i mosaici della Basilica di San Marco.

Eppure il Mose è un’alta opera dell’ingegno italiano. Un prodotto da export. Di più, un modello tecnologico da offrire per salvare il mondo e le sue coste dall’innalzamento del mare. Lo hanno detto sulla scena dell’Expo di Dubai l’architetto Elisabetta Spitz, commissario straordinario sblocca-cantieri, il ministro alle Infrastrutture Enrico Giovannini e il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Secondo il commissario Spitz, “leggero e di grande flessibilità, il Mose protegge da onde di dimensioni molto importanti, può diventare tutela delle zone a rischio nel resto del mondo”. Per Giovannini “è un’opera straordinaria non solo dal punto di vista ingegneristico, ma che può essere presa ad emblema della nostra necessità di tutelare tutti i nostri ecosistemi, non solo la Laguna di Venezia, ma altri patrimoni dell’umanità”. Dulcis in fundo, il sindaco-imprenditore: “Il Mose è un’opera positiva, concreta, molto complessa, che potrebbe essere esportata in altri Paesi”.

Niente male, come pubblicità istituzionale. Forse qualcuno sta pensando per davvero di trasformare il costosissimo gingillo in un prodotto made in Italy da vendere all’estero. Ma cosa dovremmo esportare? Le traversie di un iter tecnico-burocratico infinito? Oppure i milioni di euro finiti scandalosamente nelle tasche di politici, uomini dello Stato, controllori che non controllavano? O ancora un’opera arrugginita prima ancora di entrare in attività, carica di criticità di cui alla fine nessuno pagherà il conto?

A rendersi conto dello stridore della proposta esibita sul palcoscenico planetario, nell’indifferenza della politica, sembra essere stato il solo consigliere comunale veneziano Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore, già prosindaco della città. Conoscendo molto bene la genesi del Mose, i suoi costi economici e soprattutto ambientali, risponde da “verde e progressista”: “L’opera proposta al mondo a Dubai. Modello Mose? No, grazie”. E motiva: “L’idea, autorevolmente lanciata, è ridicola e proterva”. Perché? “Intanto perché, in linea teorica, può essere considerata in situazioni tipo laguna, dove c’è da interrompere un flusso di marea in entrata da qualche bocca di porto in un bacino chiuso. Ma ci si immagina un Mose davanti a Genova, o a Napoli o a Trieste per proteggerle dall’innalzamento del mare provocato dal surriscaldamento del clima? Oppure un bel Mose tra Atlantico e Mediterraneo, sullo stretto di Gibilterra?”.

Perché Bettin ritiene la proposta “proterva”? “Perché vuole proporre al mondo un’opera affidata in concessione diretta ad aziende scelte dal potere politico, senza gare a norma europea, approvata con diktat politico malgrado pesantissimi rilievi del Consiglio superiore dei lavori pubblici, senza Valutazione di Impatto Ambientale…”. E poi? “E’ stata progettata tenendo sott’acqua, perennemente esposti a salsedine e sabbia, delicati meccanismi di funzionamento che sono già deteriorati. Su un piano più generale è stata pensata sbagliando, al ribasso, i calcoli sull’innalzamento del livello del mare e dunque per funzionare qualche ora all’anno mentre invece dovrà farlo decine di volte”. L’effetto? “Sbarellerà le attività del porto e stravolgerà l’ecosistema lagunare, con altissimi costi di manutenzione e alto tasso di usura dei congegni, già costata una montagna di soldi che, per l’opacità e l’arbitrarietà delle procedure e della storica governance, ha provocato il massimo costo e il peggiore scandalo intorno a un’opera pubblica in Italia e in Europa”.

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