di Clementina Sasso, astrofisica; Maurizio Rainisio, statistico; Sara Gandini, epidemiologa/biostatistica

L’Italia è tra quei paesi che hanno le più alte percentuali di vaccinati e, al momento, si trova in una fase discendente del contagio. Registriamo infatti un 66,4% di popolazione totalmente vaccinata e siamo ad un’incidenza di 45 contagiati, calcolata su 7 giorni e su 100mila abitanti. Si può affermare che l’estate sia passata senza aver provocato grandi danni, nonostante la maggiore contagiosità della variante delta. Possiamo infatti registrare solo il passaggio della regione Sicilia in zona gialla, avendo superato contemporaneamente sia la soglia del 15% di occupazione dei posti letto di degenza ordinaria, sia il 10% di occupazione della terapia intensiva.

Ma quello che ci chiediamo in questo post è quanto questa situazione sia dovuta alle misure di contenimento adottate dal governo italiano. Dobbiamo infatti evidenziare che altre nazioni si trovano in una situazione molto simile alla nostra per quanto riguarda la percentuale di vaccinati e la discesa della curva del contagio, ma molto differente per quanto concerne invece le misure di restrizione.

Ma come facciamo a misurare la severità delle restrizioni imposte dai governi? Possiamo farlo attraverso lo “Stringency Index”. Il progetto OxCGRT (Oxford Coronavirus Government Response Tracker) ha infatti definito un parametro, lo Stringency Index appunto, il cui valore va da 0 a 100, e che tiene conto della “stringenza” di 9 misure di restrizione, che sono: chiusura delle scuole; chiusura dei luoghi di lavoro; cancellazione degli eventi pubblici; restrizioni sugli incontri pubblici; chiusura del trasporto pubblico; misure di permanenza a casa; campagne di informazione pubblica; restrizioni sui movimenti interni e controlli dei viaggi internazionali. L’indice viene definito per ogni giorno, come la media della rigorosità di queste nove misure, ognuna definita con un valore che va da 0 a 100, dove 0 è l’assenza totale della misura e 100 la sua implementazione di massima copertura [1]. Se in una nazione vengono utilizzati, per una stessa misura, diversi gradi di restrizione, l’indice rispecchia il valore della sottoregione con la misura più rigorosa.

Nella definizione dell’indice, si fa notare che esso “registra semplicemente la severità delle politiche dei governi. Non misura né implica l’adeguatezza o l’efficacia della risposta di un paese. Un punteggio più alto non significa necessariamente che la risposta di un paese sia ‘migliore’ rispetto ad altri più bassi dell’indice”. Dunque, più restrizioni non vogliono dire automaticamente più efficacia nella riduzione del contagio.

L’Italia, nel periodo che va da giugno di questo anno ad oggi, ha raggiunto un valore massimo dello stringency index di 75 a luglio, quantità ben lontana da quella toccata, nello stesso periodo, ad esempio da Spagna, Francia e Danimarca, nazioni che vivono un calo del contagio attuale molto simile al nostro o Germania, Norvegia e Svezia che invece registrano adesso un aumento dei positivi, avendo passato un’estate con numeri molto contenuti di contagiati.

Recentemente, è stato pubblicato su medrxiv un articolo non ancora sottoposto a revisione, a nome di Maurizio Rainisio, che sembra mostrare come le restrizioni a zone, applicate a partire da novembre 2020 in Italia, non avrebbero avuto alcun impatto sull’epidemiologia della seconda ondata di Covid-19.

Quello che ci chiediamo, alla luce di questi articoli e dei dati di raffronto con le altre nazioni, è se sia ancora sensato legare indissolubilmente la salita del contagio a minacce di nuove chiusure. Non dovremmo iniziare invece a comprendere che, a maggior ragione adesso che la stragrande maggioranza della popolazione a rischio è vaccinata, quasi sicuramente continueremo ad assistere ad ondate di casi positivi da Sars-Cov-2 indipendentemente dalle restrizioni che metteremo in campo? Restrizioni di cui, peraltro, sembra vengano quasi del tutto ignorati gli effetti negativi che comportano in tutti i campi, a partire dalla salute psichica di chi le subisce per finire ai danni all’economia e alla ripresa del nostro paese.

Ora che abbiamo visto che i contagi, e di conseguenza le ospedalizzazioni e i decessi, continuano ad essere i miglioramento a partire dai primi di luglio, e questo nonostante la diffusione della variante delta, possiamo cercare di pensare al benessere della società nel suo complesso tenendo conto del fatto che la salute non è solo rischio di contagio.

I dati forniti in questo post vengono da https://ourworldindata.org/

Articolo Precedente

Vaccinarsi conviene (e pure tanto): lo dicono i dati

next
Articolo Successivo

Covid, l’annuncio della casa farmaceutica Merck: “Con antivirale molnupiravir – 50% di ricoveri e di morti nei pazienti non gravi”

next