Larga parte della popolazione statunitense considera le cosiddette elezioni di “medio-termine” poco importanti perché riguarda “soltanto” l’elezione di una parte del Congresso e non del presidente. Ma le elezioni, che negli Usa sono ogni due anni, sono sempre importanti anche quando non si corre per la presidenza.

Il presidente è il responsabile “esecutivo”, ma la responsabilità legislativa è del Congresso. Quindi la scelta degli altri soggetti politici non è secondaria e questa avviene nel voto ai Rappresentanti nel Congresso e nella scelta dei Senatori.

Il Presidente sappiamo tutti che viene eletto ogni quattro anni. La scelta dei “Rappresentanti” nel Congresso e quella dei Senatori invece varia a seconda di ciò che prevede le legge di ogni singolo Stato. Generalmente è di due anni per i Rappresentanti ma per alcuni Stati è di quattro. Quella dei Senatori (numero fisso di 100, due per ogni Stato) è invece generalmente di sei anni, ma alcuni Stati preferiscono cambiare i senatori ogni due anni, altri Stati ogni quattro anni).

Il numero fisso del Congresso è stabilito in una Legge Federale che assegna 435 seggi ai Rappresentanti e 100 seggi ai Senatori, ma il numero dei rappresentanti assegnati ad ogni Stato cambia a seconda del numero di abitanti che lo popola. Quindi, in base al Censimento decennale del 2020 (concluso nel 2021 a causa della pandemia), il numero di seggi assegnato ad ognuno dei 50 Stati avrà qualche piccola (ma importante) modifica nell’elezione del prossimo anno. Il dato più vistoso che è emerso da questo censimento è che la California e lo Stato di New York perdono un seggio a testa mentre è il Texas a fare la parte del leone guadagnandone proprio due.

Altri Stati però perdono o guadagnano un seggio per i propri rappresentanti come mostra il grafico.

Questo “rimescolamento” del numero dei seggi cui ogni singolo Stato ha diritto ha però attivato anche la necessità di consentire il “ridisegno” (redistricting) del territorio assegnato ai rispettivi “rappresentanti”, mettendo così in moto anche quell’odiosa tecnica di tracciamento definita “Gerrymandering” (dal nome del suo inventore: Gerry Elbridge) che consente, mediante una tracciatura a volte tortuosa, di raggruppare o dividere zone in modo da assegnare più seggi ad un partito piuttosto che ciò che emergerebbe da una tracciatura normale.

Nella tabella “Gerrymandering explained” appare chiaramente come la particolare tracciatura dell’ultimo esempio consenta addirittura di invertire il risultato che sarebbe emerso con una tracciatura semplice del territorio elettorale.

Per fare un esempio più concreto potrei dire che quei due seggi in più che arrivano al Texas dall’incremento della popolazione (molto probabilmente in maggioranza “latina”, vista la vicinanza col confine messicano), potrebbero essere vinti appunto da candidati che rivolgono a quell’elettorato le loro attenzioni, ma potrebbe bastare una semplice variazione dei confini territoriali circoscrizionali per spostare il risultato su candidati di altro tipo.

Ari Berman, su Mother Jones di luglio, in un articolo titolato “Gop could retake the House in 2022 just by Gerrymandering four Southern States” (I Repubblicani possono riprendersi la Camera dei Rappresentanti nel 2022 semplicemente modificando le aree elettorali di 4 Stati del Sud) ha spiegato come i repubblicani possono conquistare, in questo indecoroso modo, la bellezza di tredici seggi nel Congresso di Washington, guadagnando così una maggioranza decisa dai tracciatori dei confini elettorali invece che dagli elettori.

Il Partito Democratico però ha già previsto questa mossa e ha provveduto ad approvare in marzo alla Camera, dove ha una maggioranza sufficiente, una legge federale denominata “For the people Act”, che impedisce queste operazioni studiate per vanificare la volontà popolare. Ma potrebbe comunque trovare al Senato – come è prevedibile – un blocco insuperabile dalla forte opposizione dei repubblicani, che lì godono di una parità dei seggi, 50 a 50 (anche se i democratici nella legislazione ordinaria possono prevalere con il voto in più della Vice Presidente Harris). In casi come questo il partito di minoranza può attivare il “Filibuster” con il quale prescrive che la maggioranza semplice non basti e occorrano almeno 60 voti per vincere.

Ovviamente è di fatto impossibile trovare dieci senatori repubblicani disposti a sostenere una legge che, a parte il titolo, sembra fatta apposta per tenerli all’opposizione. Alcuni democratici stanno pensando di approvare prima una legge che elimini il “filibuster” ma alcuni membri del partito non sono d’accordo.

Anch’io non sono d’accordo, però questo modo “sporco” di operare dei repubblicani mi piace ancor meno. “Imbrogliano” i tempi per eleggere i giudici della Corte Suprema; “imbrogliano” i confini per tracciare convenienti aree elettorali; aprono i cordoni della borsa solo quando sono al governo loro; li chiudono rigidamente quando governano i Dems; alzano senza fiatare il tetto al debito quando c’è uno di loro alla Casa Bianca; minacciano invece subito il default di Cassa (ce n’è già uno in vista il prossimo ottobre) se alla Casa Bianca c’è un democratico.

Joe Biden ha pasticciato in Afghanistan? Un poco! Ma un attentato terroristico poteva capitare a chiunque (9/11 insegna). Ma se per evitare uno poco decisionista dovrei votare dei manipolatori di scelte elettorali espresse dagli elettori, allora preferisco stare con gli indecisi.

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