“Ma io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato”: così recita un passo dell’Intervista immaginaria (1946) di Eugenio Montale (12 ottobre 1896, Genova – 12 settembre 1981, Milano), premio Nobel per la letteratura nel 1975 e primo e unico poeta italiano ad aver ricevuto ancora vivente l’edizione critica della propria Opera in versi (uscita a Milano nel 1980 per le cure di Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini).

Da semplice lettrice non specialista, è difficile dire qualcosa su un intellettuale di questa statura, sul quale molti studiosi hanno scritto pagine illustri. Un buon tentativo può forse essere quello di attraversare un aspetto della poesia montaliana che il lettore sente come particolarmente vicino: tutto quel mondo di piccoli oggetti che fanno visita al poeta lungo l’intero arco della sua carriera – e al quale ormai vent’anni fa Luigi Blasucci ha dedicato un libro ancora splendido (Gli oggetti di Montale, Bologna 2002).

Fin dalla prima raccolta, Ossi di seppia (1925), la poesia di Montale si popola di piante, animali della campagna, cibi semplici: entra in circolo una ventata d’aria pura (“Godi se il vento ch’entra nel pomario / vi rimena l’ondata della vita”, Godi se il vento… 1-2); si colgono fiori (“portami il girasole impazzito di luce”, Portami il girasole… 12); si passeggia per le viuzze di campagna, tra gli “erbosi fossi” che “mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni” (I limoni 10); si sentono i rumori della natura, “schiocchi di merli, frusci di serpi” (Meriggiare 4). Nel momento in cui entrano nella poesia, questi oggetti piccoli e semplici acquistano la forza di simboli: succede ad esempio che un uccello come l’upupa, tradizionalmente relegato in una poesia notturna e cimiteriale, si trasformi in un lieto annuncio di rinascita: “nunzio primaverile, upupa, come / per te il tempo s’arresta, / non muore più il Febbraio, / come tutto di fuori si protende / al muover del tuo capo” (Upupa, ilare uccello… 5-9).

Nelle Occasioni (1939), invece, le cose rimandano solo a se stesse: in sintonia con la poetica del “correlativo oggettivo” di T. S. Eliot – per cui la formulazione esatta di “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi” sarebbe il solo modo di “esprimere emozioni in forma d’arte” – Montale mette avanti gli oggetti e i fatti della vita privata e quotidiana trasferendo in essi il sentimento, “esprime ciò che è importante illuminando ciò che non lo è” (G. Simonetti). Così, in Dora Markus l’intera esistenza della giovane donna (una austriaca di origini ebraiche, che Montale non ha mai conosciuto di persona) si incarna nel suo portafortuna: “forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco / d’avorio; e così esisti!” (vv. 24-28). E in Notizie dall’Amiata il poeta si trova a scrivere in una stanza che “ha travature / tarlate” e dove “un sentore di meloni / penetra dall’assito” (vv. 3-5), nell’attesa dell’apparizione numinosa della donna che lo aiuti a prendere coscienza del rapporto con la realtà e col destino: “le vene / di salnitro e di muffa sono il quadro / dove tra poco romperai” (vv. 13-15) – lei è Clizia, cioè la giovane studiosa statunitense Irma Brandeis, che Montale incontra nell’estate del 1933 e con la quale intreccia una relazione durata fino al 1938.

Nel bestiario montaliano c’è anche un animale poco raffinato come l’anguilla – “viscida, immonda” nel “botro melmoso” in cui lo stesso Montale la ritrae in una delle prose de La farfalla di Dinard (1960) –, alla quale nella raccolta del 1956, La bufera e altro, è dedicata un’intera poesia. In questa “grande allegoria, costruita a partire da un animale umile” (I. Campeggiani), la “giallognola” anguilla rivela sorprendenti iridescenze: si trasforma in “torcia, frusta, / freccia d’Amore in terra” che indica la direzione della rinascita, la “scintilla che dice / tutto comincia quando tutto pare / incarbonirsi” (L’anguilla 15-16, 23-25), per cedere infine all’immagine “della donna e del suo potere di ridare vita al mondo” (L. Serianni).

La persistenza delle cose – prima simboli, poi “correlativi”, poi ancora allegorie – è tale da scavalcare gli anni del silenzio poetico che segue l’uscita della Bufera (1956-1963): nel Diario del ’71 e del ’72 (1973) ricompare infatti l’oggetto come “formula” dell’amore: “Era appena la Vita, qualche cosa / che tutti supponiamo senza averne le prove, / la vita […] / che tu conosci / anche soltanto con le dita / quando sfiori un oggetto che ti dica io e te / siamo UNO” (Diamantina 27-34), a conferma del fatto che la poesia montaliana “parte sempre dal vero” – “io non so inventare nulla”, scriveva il poeta a Glauco Cambon nell’ottobre 1961.

Tra i poeti italiani del Novecento, Montale è forse quello che più di tutti è ancora capace di parlare a lettori anche di diverse generazioni – proprio lui che ha scritto “sempre da povero diavolo e non da uomo di lettere professionale” (Intervista immaginaria): la forza della sua poesia starà allora proprio qui, in questo universo di piccole cose che, con la loro urgenza di vita e di significato, ci conducono per mano a fargli visita nei suoi versi.

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