Condivido le perplessità di Oria Gargano, presidente di BeFree, sulle dichiarazioni rilasciate alla stampa dal presidente dei Gip di Catania dopo il femminicidio di Vanessa Zappalà. Aveva 26 anni ed è stata uccisa da Tony Sciuto, lo stalker che la perseguitava da tempo e che si è vendicato, come aveva preannunciato, per la fine della loro relazione. Dopo quei sette colpi di pistola, si è suicidato impiccandosi in un casolare. Nell’auto sono stati trovati altri 28 proiettili. La morte di Vanessa Zappalà si poteva evitare?

Ogni volta che una donna denuncia e viene uccisa o gravemente ferita è importante capire come si sia mosso il sistema di protezione. Non mi riferisco solo alle procure, ma a tutti i soggetti che svolgono ruoli differenti e che dovrebbero collaborare in maniera integrata così come indicherebbe la Convenzione di Istanbul, tanto difficilmente applicata.

Talvolta le donne vengono assassinate (o sono assassinati i loro figli) dopo essersi rivolte più volte all’autorità giudiziaria, come accadde a Marianna Manduca, uccisa nel 2007 dal marito dopo ben 12 denunce fatte alla procura di Catania. Tutte archiviate. Non è il solo caso e questo ci porta a ritenere che abbiamo ancora lacune nel sistema.

L’intervista rilasciata dal Gip pone interrogativi. Farò un confronto tra le sue considerazioni e quelle di un’operatrice di un centro antiviolenza:

Gip: “Una cosa sono le parole, una cosa i fatti. Non le aveva mai puntato una pistola. Nel 70% delle denunce leggiamo: ‘Se mi lasci, ti ammazzo’. Purtroppo, siamo di fronte a vicende complesse. Spesso è difficile capire come vanno le cose per davvero”.

Operatrice di un centro antiviolenza: “Una minaccia non è un’opinione ma è un fatto. Nei centri antiviolenza si prende in seria considerazione ogni tipo di minaccia in un contesto di violenza, maltrattamento o stalking. Si lavora in équipe e si svolge una valutazione complessiva del rischio avvalendosi anche di test, quali per esempio il Sara. Insieme alle donne si valuta se sia necessario un temporaneo allontanamento dai loro luoghi abituali, dove possono essere facilmente rintracciate.

Dal momento che si tratta di situazioni complesse e non sempre facilmente prevedibili (nessuna lo è) è importante agire cautelativamente mettendo al sicuro la vittima. Nei casi più gravi anche allontanandola dalla propria città. Da questo punto di vista la rete dei Centri antiviolenza è una risorsa. Nei territori dove sono stati siglati protocolli di intervento in rete tra diversi soggetti che intervengono a tutela della vittime (forze dell’ordine, magistrati, servizi sociali e centri antiviolenza) sono le stesse Procure o i Servizi Sociali che talvolta coinvolgono i centri antiviolenza per garantire maggiore protezione alle donne”.

Gip: “Io dico: fate le denunce quando c’è la sostanza. Perché a volte molti esposti hanno carattere ritorsivo. E poi, magari, si finisce per fare pace”.

Operatrice di centro antiviolenza: “Non comprendo il riferimento da parte del Gip alle denunce ‘senza sostanza’ perché non era questo il caso. Se una donna ritira una querela non significa necessariamente che sia una denuncia priva di fondamento. Nelle situazioni di violenza e maltrattamento e stalking non è raro che le vittime denuncino e poi ritirino la querela. Possono farlo per diversi motivi: perché non sono pronte o sono state sollecitate a fare una denuncia senza aver maturato la decisione. A volte temono ritorsioni, o restano deluse dai tempi di risposta dei tribunali che sono spesso troppo lenti e dilatati. A volte tra la denuncia e un ordine di allontanamento trascorrono mesi, le donne perdono fiducia nella risposta giudiziaria, cercano altre strategie o sentono di non aver il controllo della situazione. Infine, possono ricevere rassicuranti promesse di cambiamento”.

Trovo però curioso che il Gip ponga l’accento sulle intenzioni ‘ritorsive’ delle donne e non sulla innumerevole casistica di comportamenti ritorsivi di coloro che commettono violenze e femminicidi. L’Istat ha misurato la violenza contro le donne in ben due indagini, nel 2006 e nel 2014, rilevando che sono 6 milioni e 743mila, cioè il 31,9% della popolazione femminile, le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiarano di essere state vittime di violenza, fisica o sessuale, almeno una volta nella vita. Le indagini internazionali hanno invece rilevato che le false denunce di maltrattamento familiare oscillano tra lo 0,8 e il 3% delle denunce e sono un fenomeno residuale.

In Italia non mi risulta (avendone chiesto lumi a diversi magistrati) che esistano studi attendibili sull’incidenza delle false denunce delle donne nel sistema di tutele di vittime di violenza, pertanto se i dati della violenza contro le donne sono coerenti con quelli di altri Paesi occidentali, anche quelli sulle false denunce rilevati nei Paesi occidentali saranno coerenti con la situazione italiana. Nel frattempo, però, il mito del ‘fenomeno delle false denunce’ continua a essere propalato e rafforza il pregiudizio biblico della donne menzognere per natura. O vendicative.

Le inefficienze del sistema giudiziario italiano sono state messe in evidenza dalla Corte di Strasburgo nel 2017 e nel 2021. In entrambi i casi la Cedu ha stigmatizzato i pregiudizi e gli stereotipi sessisti che le donne incontrano nei tribunali senza che sia dato ascolto adeguato alla loro testimonianza. Il Comitato del Consiglio dei ministri d’Europa ha invece stigmatizzato l’elevato numero di archiviazioni a fronte di denunce per violenza, indice di una inefficienza nel nostro sistema giudiziario.

Anche la relazione sulla Commissione di Inchiesta sul Femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente ha messo in evidenza una scarsa specializzazione dei magistrati sul fenomeno del maltrattamento domestico, così come l’indagine realizzata dal Gruppo avvocate D.i.Re sul “(Non) riconoscimento della violenza domestica, nei tribunali civili e per i minorenni”.

Gip: “Si cerca sempre un colpevole in questi casi drammatici. Ma non può essere il giudice. E non posso contestare niente al collega. Bisognerebbe fare un discorso più ampio. E mettere in campo strumenti adeguati: ad esempio un particolare tipo di braccialetto elettronico, che segnala la presenza dell’indagato nel momento in cui si sposta in una determinata zona. Ma oggi il braccialetto elettronico si può mettere solo agli arrestati domiciliari”.

Operatrice di centro antiviolenza: “Perché Tony Sciuto non era agli arresti domiciliari?”

@nadiesdaa

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