Vaccinare i giovanissimi e under 18 quando milioni di adulti a rischio Covid in Italia non lo sono ancora. Perché farlo quando in Regno Unito e Germania per esempio viene consigliato solo a ragazzini e bambini con gravi patologie? Franco Locatelli, direttore di Medicina sperimentale di precisione del Bambino Gesù di Roma, ricercatore e medico in prima linea nella cura di pazienti anche giovanissimi nel suo reparto di Oncoematologia, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e coordinatore del Comitato tecnico scientifico, risponde a Ilfattoquotidiano.it anche da “pediatra” raccomandando il vaccino perché in Italia, anche se rappresentano lo 0,02% dei decessi totali, 27 bambini sono morti per le conseguenze del Covid. Somministrazione alla quale dovrebbero sottoporsi tutti, perché è un “atto di solidarietà e senso civico”.

L’arrivo dei vaccini doveva essere l’inizio della fine della pandemia. E in qualche modo lo è stato stato: contagi, ricoveri e numero di vite perse finalmente in calo sono dati non discutibili. Eppure la lotta alla pandemia – con gli scienziati tuttora impegnati in laboratorio a trovare una cura contro il Covid 19 – sembra essere a un punto critico tra varianti, comportamenti in alcuni casi scorretti e anche i dubbi innescati soprattutto nelle fasce a rischio dalle reazioni avverse. Eppure i vaccini restano l’unica arma a disposizione per respingere l’attacco del virus. Nessun farmaco e nessun composto – anche il più a lungo testato – o quello che consideriamo addirittura innocuo come l’aspirina può escludere totalmente un rischio.

Cosa vuole dire agli adulti che non ancora hanno prenotato il vaccino per aiutarli a decidere?
Semplicemente che i vaccini sono lo strumento più efficace per prevenire i decessi e lo sviluppo di patologia grave e che i vaccini disponibili nel nostro Paese hanno superato le più rigorose e stringenti valutazioni da parte delle agenzie regolatorie, le quali ne hanno documentato il favorevole rapporto benefici-potenziali rischi, con il vantaggio che diventa incrementale con l’età. Vaccinarsi è, oltre che la miglior strategia per proteggersi, un atto di solidarietà e senso civico. Nessuno, quindi, abbia esitazione ad aderire alla campagna vaccinale in corso nel Paese.

Per i giovanissimi (under 18) i rischi legati al Covid sono relativamente bassi. In questa fascia d’età non esiste una strategia vaccinale condivisa in Europa. Perché?
Non è certo la prima volta che Paesi europei adottano politiche differenziate rispetto alla strategia vaccinale. E sarebbe largamente auspicabile che, almeno nell’ambito dell’Unione Europea, pur nel rispetto delle autonomie decisionali delle istituzioni sanitarie nazionali, vi fosse un approccio condiviso e non diversificato. Personalmente, non ho esitazioni nel condividere in maniera totalmente sintonica la scelta di quei Paesi quali l’Italia, la Francia, l’Austria, e non solo, che hanno deciso di impiegare senza limitazioni il vaccino a oggi approvato (quello di Pfizer-BioNTech) nella fascia d’età tra 12 e 18 anni.

L’Istituto R. Koch ha “sconsigliato” la vaccinazione per bambini e adolescenti “sani” fino a 17 anni, ma lo consiglia ai fragili e a chi ha patologie pregresse. Questi vaccini sono progettati proprio per essere somministrati negli immunodepressi e nei fragili, che hanno precedenza nelle vaccinazioni. Cosa ne pensa?
Che i bambini con patologia che induce immunodepressione (basti pensare per esempio ai bambini oncologici o sottoposti a trapianto di cellule emopoietiche o di organo solido) o che hanno patologie o condizioni costituzionali che inducono maggior fragilità (i bambini con fibrosi cistica o ex prematuri con displasia broncopolmonare o con trisomia 21 costituzionale) possano beneficiare più di altri dal ricevere un ciclo vaccinale completo, certo non sorprende. Tuttavia, personalmente e lo affermo convintamente da pediatra, ritengo che, indipendentemente da queste condizioni particolari, la somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2 sia da raccomandare in tutti i soggetti dell’età pediatrica. Questa posizione nel nostro Paese è condivisa ufficialmente dalla società scientifica italiana di riferimento, cioè la Società Italiana di Pediatria.

I rischi reali per i bambini che non dovessero vaccinarsi, quali sono? E in quale percentuale?
Lo European Center for Disease Control (ECDC) ha recentemente pubblicato un’analisi aggiornata sull’andamento dell’infezione nei bambini. Iniziamo con il ribadire che, come noto, fortunatamente, la maggior parte dei bambini infettati sviluppano pochi sintomi, solitamente lievi; meno dell’1% dei casi accertati richiede il ricovero. Tuttavia, seppur raramente, anche nei bambini, non necessariamente con altre patologie in atto, si possono sviluppare quadri respiratori severi (tra gli 1 e i 4 infetti ogni 10.000 nella fascia di età 0-18, senza particolari distinzioni tra maschi e femmine o sottogruppi di età, come invece accade nei pazienti adulti) o addirittura fatali (in Italia, ad oggi, sono stati riportati 27 decessi per Covid-19). È, inoltre, importante sottolineare che, probabilmente anche in ragione delle campagne vaccinali, il numero di casi per 100.000 abitanti nelle fasce di età 16-18 e 12-15 appare essere nell’area Ue più alto rispetto ad altre fasce di età.

Tra gli effetti indiretti del Covid c’è sicuramente la sindrome Pims (infiammazione multisistemica pediatrica) temporalmente correlata alla SARS-CoV-2, questo effetto può considerarsi raro e ben trattabile con farmaci come le immunoglobuline e farmaci simili al cortisolo. Quanti bambini sono stati colpiti? Con che esiti e in che percentuale?
La PIMS, anche chiamata MIS-C (multisystem inflammatory syndrome in children, denominazione usata dall’OMS e dai Centers for Disease Control americani), è certamente una complicanza rara, ma che, tuttavia, può avere un decorso severo. Infatti, dal 60 all’80% dei pazienti con questa complicanza (la grande maggioranza dei quali senza alcuna patologia preesistente), che normalmente si manifesta da 2 a 6 settimane dopo l’infezione, richiedono il ricovero in terapia intensiva, specialmente per problemi cardiaci, per un tempo medio di 5-7 giorni. La metà di questi pazienti necessitano di farmaci per il supporto del circolo e fino a circa il 20% richiedono la ventilazione meccanica. Le immunoglobuline e i farmaci corticosteroidei (da soli o in associazione) costituiscono la terapia di scelta, senza che sia stata dimostrata una chiara superiorità di uno di questi trattamenti. La mortalità è stimata tra l’1 e il 2%. Per quanto riguarda l’incidenza di tale complicanza, in Italia, ad oggi, sono però stati segnalati 300 casi di PIMS/MIS-C. Lei sa che io lavoro all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù e il dottor Villani, ex Presidente della Società Italiana di Pediatria, con me condivideva che 30 di questi casi sono stati seguiti presso di noi, 23 di essi hanno richiesto un ricovero in terapia intensiva; un dato in linea con quanto riportato nella letteratura cui facevo prima riferimento.

Negli Stati Uniti, i dati raccolti dai CDC hanno portato ad aggiornare i bugiardini. Le miocarditi nella maggior parte si sono risolte positivamente, ma in alcuni rari casi è stata necessaria la terapia intensiva. Inoltre sono state raccolte dal VAERS 8 segnalazioni di decessi in under17, l’ultimo cronologicamente è un 13enne per il quale è stata aperta un’indagine. Qual è il suo commento?
Il singolo caso dello sfortunato ragazzo a cui lei fa riferimento è quello di un tredicenne morto alcuni giorni dopo la seconda dose. Come chiaramente sottolineato dai CDC, questo caso è oggetto di attenta valutazione e finché tutti gli elementi conoscitivi non saranno disponibili è prematuro attribuire questo decesso ad una causa specifica. I casi di miocardite osservati sono molto rari, seppure maggiori dell’atteso, ma non dimentichiamoci che si sono risolti spontaneamente nella larga parte dei casi e, quando si è reso necessario, il ricovero ospedaliero ha avuto una assai breve durata. Ribadendo l’importanza e la crucialità delle attività di farmacosorveglianza e della vaccinovigilanza largamente in atto anche nel nostro Paese, non dimentichiamo, tuttavia, i 27 decessi e 300 casi di PIMS/MIS-C registrati solo in Italia.

Tenendo conto che gli under 12 (circa 6 milioni di individui) saranno sempre e comunque una riserva in cui il virus potrà viaggiare senza fare danni per gli stessi e ora dopo gli studi recenti sappiamo anche agli adulti, perché insistere per vaccinarli?
Prima di tutto per proteggere i bambini medesimi dal rischio di sviluppare quadri di malattia grave o addirittura fatale, con i numeri già ricordati che corroborano largamente questa scelta. Poi perché la protezione dei bambini consente di proteggere indirettamente coetanei che frequentano la stessa classe o altri luoghi di socializzazione, ma che non hanno un sistema immunitario capace di rispondere efficacemente alla somministrazione del vaccino. Lo stesso discorso si applica anche per tutte le altre persone non vaccinate che entrano in contatto con i bambini. Infine, non dimentichiamoci che vaccinare significa anche creare le migliori condizioni perché possa avere continuità la didattica in presenza. È inutile lamentarci dei danni associati alla deprivazione sociale e psicoaffettiva che si associa all’impossibilità di avere continuità nella scuola se non facciamo quanto è nelle nostre possibilità per far sì che ciò non accada. E quando gli studi saranno completati e le informazioni rese disponibili alle agenzie regolatorie, se le stesse riterranno di approvare l’uso dei vaccini anche sotto i 12 anni d’età, personalmente, non vedo ragione per non procedere a conferire protezione immunologica anche nei bambini più giovani.

Guardando i dati ufficiali sappiamo che ci sono alcuni milioni di italiani adulti e a rischio nelle tre fasce, 60-69, 50-59 e 40-49 anni, che non hanno ricevuto neanche la prima dose. Perché non ci si concentra su queste fasce? E infine sulla fascia 30-39 anni?
Come è ben noto a tutti, in Italia, ci si è concentrati sulle persone più fragili e, quindi, esposte a maggior rischio o per ragioni anagrafiche o per patologie concomitanti. Basta guardare la stratificazione della copertura ottenuta fino ad oggi nelle differenti classi di età per averne evidenza. L’obiettivo di completare il ciclo vaccinale in chi ha ricevuto la prima dose di vaccino e di procedere all’immunizzazione dei soggetti in età più avanzata o fragili a oggi non ancora vaccinati rimane ovviamente prioritario, ma procedere con la campagna nella fascia adolescenziale non confligge con questo obiettivo. Abbiamo numeri di dosi di vaccini sufficienti per perseguire entrambe le strategie.

Possiamo considerare moralmente accettabile anche un solo bambino sano venga danneggiato dal vaccino o peggio considerando che la stragrande dei morti in Italia aveva più di 80 anni e presentava più patologie? Qual è la strategia alla base della vaccinazione tra 12-15 anni limitare la circolazione o l’immunità di gregge?
Partiamo da questo presupposto: le agenzie regolatorie hanno approvato il vaccino di Pfizer-BioNTech tra 12 e 15 anni e la valutazione è stata fatta tenendo in considerazione tutte le informazioni che servivano per definire il profilo benefici-rischi anche in questa fascia d’età. Come ho già ricordato, a oggi, nel nostro Paese sono, purtroppo, e tragicamente, sono deceduti 27 bambini. L’evento più sfavorevole è marcatamente raro, ma non impossibile come questi numeri ci dimostrano. Vaccinare la fascia adolescenziale e, quando i vaccini saranno approvati sotto i 12 anni, anche i bambini più piccoli risponde compiutamente a un profilo etico di tutela del singolo, non essendo, per ovvie ragioni di tempi di osservazione, neanche compiutamente definite le conseguenze che, nel tempo, possono derivare dallo sviluppo di quadri severi come le PIMS/MIS-C. Se da questa scelta prioritariamente improntata alla tutela del singolo ne deriva un vantaggio più generale per la collettività grazie a una riduzione della circolazione virale non vedo quale sia il problema.

Le mutazioni di un virus come SARS-CoV-2 sono molto rapide. Una risposta per arginarle potrebbe o dovrebbe basarsi sulla rapidità di vaccinazione delle fasce a rischio, mentre si potrebbe far correre il virus nei gruppi a basso rischio di evoluzione negativa?
Lasciar correre tra i giovani una variante come la Delta, che ha grande contagiosità, significa creare le condizioni per causare un’infezione di massa. Non dimentichiamoci che esiste una consistente porzione della popolazione non vaccinata oppure vaccinata ma non immunizzata perché poco responsiva ai vaccini. Non vedo proprio nessun razionale nell’adottare una scelta di questo tipo, come del resto segnalato anche in una recente pubblicazione su Lancet siglata da 100 autorevoli scienziati di tutto il mondo.

Nel Paese comincia a sentirsi molto il contrasto tra vaccinati e non-vaccinati. Chi è vaccinato con ciclo completo deve avere paura di chi non è ancora vaccinato? I nonni devono avere timore dei nipoti non-vaccinati?
Sono ormai numerosi gli studi che documentano in maniera molto chiara come aver completato il ciclo vaccinale protegga in maniera pressoché assoluta dalla mortalità da COVID-19 e dal rischio di ricovero nelle terapie intensive. Chi è vaccinato e non soffre di malattie che possono andare ad alterare la risposta immunitaria ha un rischio di sviluppare quadri gravi di COVID-19 straordinariamente basso e i nonni non hanno particolari motivi di temere il contatto con i nipoti non ancora immunizzati. Questo premesso, i nonni, con la loro saggezza, devono semmai incentivare la vaccinazione dei propri nipoti.

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