Ci si lamenta spesso del provincialismo del cinema italiano, delle trame tutte uguali, dei due-tre attori che monopolizzano tutti i ruoli, delle recitazioni femminili sempre urlate, degli stereotipi borghesi da commediola innocua o da intimismo caricaturale. Ed è comprensibile farlo. Poi, però, ogni, rarissima, volta che un regista, esordiente o affermato, prova a uscire dai canoni, a osare il sublime, ecco subito distendersi davanti ai nostri occhi una distesa di ditini alzati, di capelli spaccati in quattro, di sguardi distratti e ostentati sbadigli da snob in posa.

Ecco, vi inviterei a spezzare questa sciocca routine e andare al cinema a vedere un film letteralmente extra-ordinario: The Book of Vision, di Carlo Hintermann.

Il film ha un respiro internazionale fin dalla fase di produzione (che ha visto riunire gli sforzi di Citrullo International, Luminous Arts Productions, Entre Chien et Loup, Rai Cinema), come conferma il cast: Charles Dance (Tywin Lannister di Games of Thrones), l’attrice olandese Lotte Verbeek (già apprezzata ne I Borgia), Izol’da Djushauk (splendida Margherita nel Faust di Sokurov), l’islandese Sverri Gudnason (che interpretò Björn Borg in Borg McEnroe, e Filippo Nigro (uno degli attori simbolo di Ozpetek). Ma al di là degli aspetti superficiali, il film ha un respiro internazionale perché si pone al livello di maestri del cinema contemporaneo.

In primo luogo, Terrence Malick: produttore esecutivo del film, ha un rapporto di stima e collaborazione con Hintermann che dura da anni, dal documentario del 2002 Rosy-Fingered Dawn – Un film su Terrence Malick dedicatogli dall’autore nostrano, fino alla realizzazione di The Tree of Life, dove quest’ultimo appare come regista di seconda unità delle riprese italiane. Del resto, lo “sguardo” di Malick nel film si riconosce anche nella fotografia magistrale del suo storico collaboratore Jörg Widmer. Certo, il film può ricordare Aronofsky (soprattutto The Fountain – L’albero della vita) e il gigante Andrej Tarkovskij. Tutti autori che interpretano la realtà attraverso simboli ancestrali: il tema dell’Albero della Vita, ad esempio, che in Hintermann ritrova tutta la sua pregnanza cabalistica.

Parliamo di un regista, infatti, che ci ha già donato il bellissimo documentario Chatzer – Volti e storie di ebrei a Venezia e un’opera ibrida e commovente come The Dark Side of the Sun (co-diretto con il genio grafico di LRNZ in arte Lorenzo Ceccotti), entrambe opere incentrate su una conoscenza profonda del tessuto simbolico delle narrazioni archetipiche.

Il film, che già dal titolo evoca atmosfere degne di William Blake, ha il coraggio di incentrare la trama su diversi piani narrativi, in un complesso gioco di reincarnazioni. Il tema, in Italia, era stato affrontato degnamente solo nell’indimenticabile sceneggiato Il Segno del Comando, a cui il regista è legato per motivi strettamente genetici (il grande attore omonimo, tra i protagonisti dell’opera, era suo padre).

A differenza di Cloud Atlas delle sorelle Wachowski (film dalla straordinarie potenzialità ma purtroppo troppo diseguale), il gioco karmico tra i personaggi non è didascalicamente leggibile: come rivela la protagonista in una delle scene più toccanti del film, “tutte le emozioni hanno trovato la strada verso altre persone”. Anche grazie allo straordinario talento di Lorenzo Ceccotti, concept visual designer del film, la potenza simbolica delle immagini di Hintermann regala scene memorabili, sintesi visuali di tutti i temi cari all’autore: la denuncia degli abusi del potere, l’amore per gli esiliati dalla società, il recupero del senso del sacro e dell’unità magica con la Natura, la necessità di raccontare e tenere viva la memoria degli umili e degli afflitti, contro l’ipocrisia violenta delle narrazioni ufficiali.

Interpretazioni di livello: Charles Dance sembra Max von Sydow, non solo fisicamente ma per profondità di interpretazione, Verbeek e Gunadson rendono plausibile una storia d’amore che brucia le tappe in poche scene (tra cui un omaggio ai Velvet Underground), ma soprattutto Izol’da Djushauk, icona faustiana, nel ruolo tormentato della veggente Maria riesce a incarnare perfettamente il potere sacro del femminile, la Shakti, il potere primigenio che si oppone all’ottusa violenza maschile. Non a caso, nella speculazione mistica della Qabbalah è centrale la presenza della Shekinah, dimora femminile del Divino, in esilio sulla terra, legata al dono della profezia, talvolta raffigurata come una fanciulla.

Un film visivamente sontuoso, filosoficamente profondo. Vedetelo.

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