Cultura

“L’eclisse della democrazia. Dal G8 di Genova a oggi: un altro mondo è necessario”: il nuovo libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci

Era il 2001 quando a Genova un ragazzo fu ucciso dai carabinieri. Altre 93 persone furono pestate ed arrestate sulla base di false prove alla scuola Diaz e decine di fermati furono torturati nella caserma di Bolzaneto. Con la versione ampliata e aggiornata del libro edito da Feltrinelli, gli autori spiegano come i fatti del luglio 2001 prefiguravano già le storture del nostro presente

di F. Q.

L’eclisse della democrazia. Dal G8 di Genova a oggi: un altro mondo è necessario – la versione aggiornata e ampliata del libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci (440 pagine, 14 euro) – è uscita per la collana “Ue saggi” di Feltrinelli. Era il 2001 quando a Genova un ragazzo fu ucciso dai carabinieri. Altre 93 persone furono pestate ed arrestate sulla base di false prove alla scuola Diaz. Decine di fermati furono torturati nella caserma di Bolzaneto. Attraverso il racconto dei fatti di Genova del luglio 2001 e delle battaglie dei movimenti di oggi, gli autori svelano perché i nodi di allora prefiguravano già le storture del nostro presente.

In quel luglio 2001 ci fu un’eclisse dei diritti costituzionali. Un blackout che sospese i valori democratici su cui si fonda il Paese. A vent’anni da quel giorno, e a dieci dalla prima pubblicazione del libro, Vittorio Agnoletto, medico e attivista, insegnante all’Università degli Studi di Milano, all’epoca portavoce del Genoa social forum, e Lorenzo Guadagnucci, giornalista al Quotidiano Nazionale, tra i fondatori del “Comitato Verità e Giustizia per Genova”, allora testimone e vittima del blitz alla Diaz, non solo raccontano tutte le verità sul G8 di Genova e sui processi che si sono susseguiti, ma – in questa nuova edizione del volume – riflettono sul valore profetico delle ragioni che spinsero in piazza centinaia di migliaia di persone. A Genova un movimento nascente che parlava di un prossimo crac della finanza globale, del collasso climatico del pianeta e delle guerre come frutto del sistema neoliberista, fu giudicato come criminale. Oggi alcune delle derive temute allora sono temi ancora attuali e per questo, secondo gli autori, un altro mondo è necessario.

Di seguito alcuni stralci tratti della nuova versione del libro, disponibile nelle librerie dal 24 giugno.

***

Le condanne subite in tribunale, specie quelle a carico dei dirigenti di grado più alto, sono state una sorpresa, percepita come un’imprevista e incomprensibile forma di accanimento. Sono rivelatrici, a questo proposito, le reazioni del capo della polizia del momento, Antonio Manganelli, e del suo predecessore Gianni De Gennaro, in carica al tempo del G8 genovese, all’indomani della sentenza di Cassazione che il 5 luglio 2012 rende definitive le condanne inflitte nel processo Diaz. Manganelli commenta a caldo con un’affermazione ambigua e minimizzatrice: “Ora, di fronte al giudicato penale, è chiaramente il momento delle scuse. Ai cittadini che hanno subìto danni e anche a quelli che, avendo fiducia nell’istituzione polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza”. Una frase che in seguito è stata considerata un’espressione ufficiale di scuse a nome della polizia di stato per quanto avvenuto alla scuola Diaz. Ma le vere scuse non sono mai arrivate. Nessuno, né Manganelli né altri, ha mai chiesto scusa – direttamente ed esplicitamente, facendosi carico delle conseguenze – alle vittime dirette degli abusi, a tutti i partecipanti alle manifestazioni, all’intera cittadinanza, agli agenti delle forze di polizia che si sono sentiti traditi non dalle inchieste dei magistrati ma dai soprusi e dai falsi compiuti sotto la responsabilità di dirigenti del massimo rango. Il “momento delle scuse” per Manganelli arriva solo in seguito alle condanne definitive, ma una verità storica su quanto avvenuto alla Diaz è acquisita ben prima del giudizio di Cassazione: dunque perché non anticipare il “momento delle scuse”, se queste sono genuine? Manganelli non specifica nemmeno il tema delle scuse annunciate. Scuse per le violenze compiute all’interno della scuola? O per le accuse calunniose? Per gli arresti arbitrari? Per le falsificazioni di tutti gli atti ufficiali? Per le menzogne dette ai mezzi d’informazione? Per gli ostacoli al lavoro dei magistrati? Per la sinistra immagine del nostro paese proiettata sulla scena internazionale? E ancora: il capo della polizia non accompagna le cosiddette scuse – che infatti non ci sono state – con gli atti che sarebbero necessari per rendere credibile l’assunzione di responsabilità: la rimozione dei condannati, le proprie dimissioni.

Ancor più esplicito, se possibile, Gianni De Gennaro, capo della polizia nel 2001, responsabile dell’ordine pubblico durante il G8, sopravvissuto a tutte le intemperie: la disastrosa gestione del vertice genovese, i cambi di governo, le inchieste e le condanne a carico dei suoi più stretti collaboratori, un procedimento a suo carico chiuso con un’assoluzione in Cassazione dopo la condanna in appello. Al momento della pronuncia definitiva sul caso Diaz, De Gennaro è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo guidato dal professor Mario Monti, con delega ai Servizi segreti. Un ruolo importante e delicato. Appena saputo delle condanne confermate, in un comunicato diffuso via Palazzo Chigi, l’ex capo della polizia, leader di una generazione di inquirenti di prima linea, esprime uno sbrigativo rincrescimento per la sorte toccata alle vittime delle violenze e delle calunnie, per poi mandare un messaggio diretto ai suoi uomini, il vero cuore del comunicato: “Le sentenze della magistratura,” scrive De Gennaro, “devono essere rispettate ed eseguite, sia quando condannano, sia quando assolvono. […] Per quanto mi riguarda ho sempre ispirato la mia condotta e le mie decisioni ai princìpi della Costituzione e dello stato di diritto e continuerò a farlo con la stessa convinzione nell’assolvimento delle responsabilità che mi sono state affidate in questa fase. Resta comunque nel mio animo un profondo dolore per tutti coloro che a Genova hanno subìto torti e violenze e un sentimento di affetto e di umana solidarietà per quei funzionari di cui personalmente conosco il valore professionale e che tanto hanno contribuito ai successi dello stato democratico nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata”. È così che un uomo di governo commenta una sentenza per fatti gravissimi passata in giudicato, una sentenza che ha decapitato la polizia di stato: manifestando solidarietà ai responsabili delle violazioni. Nessun cenno alla gravità delle accuse, all’incalcolabile danno arrecato alla credibilità delle istituzioni. Un messaggio “di affetto e solidarietà”, che sarebbe comprensibile sul piano personale e privato, diventa fatto pubblico, presa di posizione ufficiale su carta intestata del governo in carica. È il capo che non smette di proteggere e guidare i suoi uomini, qualunque cosa accada. È lo spirito di corpo che prevale sul senso dello stato. Sembra sfuggire a Manganelli come a De Gennaro la dimensione etica, civile, anche simbolica implicita nelle loro posizioni, come se entrambi appartenessero a un ordinamento indipendente, con proprie logiche, propri valori, non necessariamente coincidenti con i princìpi costituzionali. Quella che abbiamo definito “rottura della legalità costituzionale”, avvenuta nel luglio 2001, non si è ancora davvero ricomposta anche per la distanza fra simili condotte e un percorso di autentica presa di coscienza.

(…)

Nonostante le formali rassicurazioni, la sorte dei condannati nel processo Diaz, con le mancate sanzioni amministrative e il rientro in servizio, è un nervo ancora scoperto per la polizia di stato. Lo dimostrano i silenzi dei vari governi, le imprecisioni del ministero, le omissioni del capo della polizia. E lo dimostrano le focose reazioni a un intervento di Enrico Zucca, il pm del processo Diaz, che a processi conclusi e ormai passato al ruolo di sostituto alla procura generale di Genova osa affrontare l’argomento e ricordare la mancata applicazione delle prescrizioni della Corte di Strasburgo. Accade il 20 marzo 2018 a Genova, durante un convegno per operatori della giustizia organizzato dall’Ordine degli avvocati. Sono presenti, con il magistrato, Claudio Regeni e Paola Effendi, genitori di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo nel marzo 2016. La ricerca di verità e giustizia per Giulio si è scontrata con il muro di omertà e ostruzionismo alzato dalle autorità egiziane. Un muro contro il quale sta cozzando la magistratura italiana. Zucca, all’interno di un ampio intervento, pronuncia una frase che suscita le ire del capo della polizia, di vari ministri ed esponenti politici, dando il via a una polemica che tiene banco per qualche giorno. Il passaggio incriminato è questo: “L’11 settembre 2001 e il G8 di Genova hanno segnato una rottura nella tutela dei diritti internazionali. Lo sforzo che chiediamo a un paese dittatoriale è uno sforzo che abbiamo dimostrato di non saper fare per vicende meno drammatiche. I nostri torturatori, o meglio chi ha coperto i torturatori, come dicono le sentenze della Corte di Strasburgo, sono ai vertici della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i suoi torturatori?”. L’intervento di Zucca è giudicato dal mondo politico e dei media, con poche eccezioni, un attacco ingiustificato alla polizia italiana; il magistrato viene accusato di aver messo sullo stesso piano la nostra democrazia e un regime autoritario guidato da un generale. Franco Gabrielli parla di affermazioni “oltraggiose” e “infamanti”, di “arditi parallelismi che qualificano soltanto chi li pronuncia”. Il ministro della Giustizia apre un fascicolo e il caso finirà alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. In realtà Zucca ha il solo torto di mettere il classico dito nell’altrettanto classica piaga. La sua affermazione è tratta dalle carte dei processi: l’Italia a più riprese, in materia di tortura, ha violato le convenzioni internazionali (anche nel caso Abu Omar, dice il pm durante il suo intervento a Genova, citando la vicenda dell’imam rapito a Milano dai servizi segreti Usa e consegnato proprio all’Egitto per torture “delocalizzate”); il reintegro in servizio di Gilberto Caldarozzi, con ruoli operativi di investigazione, è il convitato di pietra che non si vuole mettere a fuoco: è un reintegro, oltretutto, che segue la politica di protezioni e promozioni adottata durante i lunghi anni del processo Diaz.

La credibilità delle forze dell’ordine italiane, sul piano internazionale, è da tempo ai minimi termini, come sa chiunque abbia letto le sentenze. È addirittura la Cassazione, più che Zucca, a proporre un parallelismo fra democrazia e dittatura nel suo giudizio sul ricorso di Gilberto Caldarozzi, quando parla di “comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici”. Ma l’argomento è tabù, e semmai viene affrontato, anche da chi sa, per esempio ai vertici degli apparati e dei ministeri, con dissimulata ipocrisia. L’istruttoria del Csm alla fine darà ragione a Zucca, “assolto” dopo avere rischiato il trasferimento di sede o il passaggio – professionalmente umiliante – dall’ambito penale al civile. Il caso è dunque archiviato, la punizione del pm, invocata a gran voce e con ampia eco mediatica, è respinta perché priva dei necessari presupposti legali, disciplinari, fattuali, e tuttavia il plenum del Csm non manca di mandare a Zucca e a tutti i magistrati italiani un messaggio, quasi un avvertimento. Le dichiarazioni di Zucca, pur non passibili di sanzione, sono giudicate “inopportune, specie in quanto tenute da un alto magistrato, in un convegno aperto a tutti gli operatori della giustizia, potenzialmente idonee a ingenerare un clima di generalizzata sfiducia nei confronti della polizia di stato e a indurre una inappropriata associazione fra la polizia egiziana e quella italiana”. Sembra la motivazione di una condanna, più che la spiegazione delle ragioni che hanno indotto a chiudere il caso. E si capisce perché: Zucca ha osato toccare tasti che nel gioco del potere non devono essere nemmeno sfiorati. La regola è nota e consolidata: non si parla della polizia, delle sue mancanze, dei suoi errori, delle sue omissioni. Non si parla del G8 genovese e della sua pesante eredità. Siamo, a questo punto, nell’aprile 2019 e si è obbligati a domandarsi che cosa abbiano davvero appreso la polizia di stato e in generale le istituzioni dalla lezione del G8 del 2001. La riflessione di Enrico Zucca, affidata agli autori di questo libro, ha il timbro dell’amarezza: “Il mio intervento a quel convegno non conteneva opinioni personali, citavo le massime corti di giustizia interna e internazionale. Il Csm ha detto che le mie parole sono state inopportune, eppure io parlavo con la bocca dei giudici, con le parole scritte nelle sentenze… Evidentemente, ricordare che sono stati violati degli obblighi previsti dalle convenzioni internazionali è considerato un insulto, una bestemmia”.

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