di Nadia Muscialini*

Come stanno i sanitari dopo più di un anno dall’inizio dell’emergenza dovuta alla pandemia? Ciò che si nota è il silenzio per la categoria degli ospedalieri, i “guaritori”, per mesi alla ribalta per l’impegno, la dedizione e il sacrificio che li aveva contraddistinti. Che fine hanno fatto gli “eroi” che hanno salvato migliaia di vite umane, che grazie al loro sacrificio hanno impedito che le strade delle nostre città si riempissero di morti e che hanno permesso a molte famiglie di tenere, seppur sfilacciati, i contatti con i propri cari ricoverati negli ospedali? Perché non se ne parla più dopo essere stati al centro dell’attenzione mediatica?

Dapprima osannati, poi accusati di fare allarmismo e di diffondere il virus (capri espiatori/untori), infine dimenticati; dove sono, cosa fanno? A dirla tutta, ed è bene che si sappia, i sanitari già dopo la prima emergenza sono stati cooptati per recuperare le prestazioni (non Covid) lasciate in sospeso a causa delle chiusure e conversioni delle strutture per la gestione degli ammalati; di nuovo ad ottobre 2020 sono stati reclutati per la gestione della seconda e della terza emergenza: nuove chiusure, accorpamenti di reparti, spostamenti di personale, lockdown. Sempre in prima linea, sempre accanto a malati e famiglie, con la differenza che dopo la prima drammatica emergenza si è cercato, per quanto possibile, di non chiudere ambulatori e servizi dedicati al resto dell’utenza.

Con l’arrivo dei vaccini i medesimi sanitari, impegnati su più fronti, sono stati reclutati per una nuova impresa: la campagna vaccinale. Se facciamo due conti su quello che è stato il tanto declamato potenziamento della sanità e che è constato in qualche nuova risorsa (spesso giovanissima) impegnata nelle strutture Covid, i sanitari sono sempre gli stessi. Anzi molti di meno poiché chi era in pensione è rientrato, chi proveniva dall’estero o da regioni meno coinvolte nell’emergenza anche; un numero non indifferente ha deciso di cambiare lavoro o modalità dello stesso lasciando le strutture pubbliche dove lavorava, altri hanno deciso di cambiare professione e dedicarsi ad altro.

Fatte queste premesse, per sapere come stanno i sanitari, i “guaritori”, dobbiamo capire chi sono. Intanto possiamo dire cosa non sono: i sanitari non sono degli avatar, non sono esseri astratti, ideali e nemmeno qualcosa di scontato; non sono eroi, non sono capri espiatori, non sono untori, non sono icone presenti in programmi televisivi. I guaritori sono persone come tutte le altre. Come tutti hanno avuto paura, si sono ammalati, sono morti, hanno perso amici e familiari; sono mogli, mariti, padri e madri, sorelle, fratelli.

A partire da marzo del 2020, oltre che “operatori della cura”, si sono dovuti occupare anche dei legami affettivi e i contatti dei pazienti ricoverati con chi era rimasto a casa. Sono stati coloro che si sono dedicati primariamente a offrire, con creatività e innovazione, cure e assistenza, ma anche umanità. A partire dalle strategie per farsi riconoscere dietro le bardature con i loro nomi e le foto sui camici, ma anche usando i propri dispositivi personali per aiutare chi non riusciva a rimanere in contatto con i propri cari; recuperando indumenti, protesi acustiche o occhiali, ridando dignità ad ammalati soli e spaventati perché infetti, ma ancora più fragili degli altri perché privi di ogni riferimento umano.

Un pettine, un rasoio, una notizia sul tempo o su quello che accadeva fuori, qualche passo in una stanza di isolamento, un colloquio psicologico, un incontro spirituale, l’estremo saluto, hanno fatto la differenza. I sanitari da curanti sono diventati guaritori, hanno offerto cure e conforto, hanno sostituito in tutto e per tutto gli affetti e la rete di chi era ricoverato. Non si sono risparmiati su nulla, non si sono mai fermati, hanno, come tutti, gioito, pianto, pregato, lottato, ma più che altro lavorato ininterrottamente. Non si sono tirati indietro nemmeno quando si è trattato di accogliere il dolore di chi aveva perso un congiunto, una persona cara.

I sanitari sono stanchi, sono in riserva di energie fisiche e mentali, sono, come sempre e non solo ora che vi è un emergenza in corso, a rischio di stress e burn out. Non tutti hanno avuto modo di elaborare i traumi che hanno vissuto, di raccontare, esprimere il concentrato di esperienze dell’ultimo anno. Ma anche coloro che hanno avuto la fortuna di avere presidi per l’ascolto degli aspetti emotivi, psicologici, etici, hanno necessità di tornare ad “essere umani”. Bisogna che si smetta di darli per scontati; considerandoli eroi o automi li devitalizziamo, come se fossero semplici ingranaggi della catena di montaggio che produce salute.

Chi si occupa di programmazione e politica sanitaria dovrebbe seriamente occuparsi del personale della cura, in primo luogo aumentando le risorse umane del Sistema Sanitario Nazionale, ma poi verificando che siano istituiti e funzionanti i presidi di tutela nei luoghi di lavoro (già previsti per legge), non solo per il controllo e la tutela delle condizioni di idoneità fisica ad una mansione ma anche come spazi di verifica, prevenzione e cura dello stress occupazionale e del burn out.

Chi svolge un lavoro di cura deve avere del tempo istituzionalmente predisposto per condividere vissuti emotivi oltre che consegne, per trovare strategie di resilienza nel gruppo. Finche tali presidi, previsti dalla legge, non saranno ovunque funzionanti tutte le iniziative spontanee, partite dal basso, sono state e saranno utili.

*Psicoanalista, psicologa ospedaliera

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